Eppur negozia. L'Europa dei populismi fa il gigante commerciale
La chiusura commerciale degli Stati Uniti ha spinto Bruxelles ad accelerare molti negoziati per abbattere dazi e tariffe. Oggi Washington riprende i colloqui con Pechino
Roma. Riprendono oggi a Washington i colloqui Cina-Stati Uniti sui dazi. L’America di Donald Trump vorrebbe imporre una tassa sull’import cinese per ridurre il suo gigantesco deficit commerciale. Pechino cerca il dialogo per non perdere il contatto col ricco mercato americano. Ma l’impeto protezionista del presidente americano torna a minacciare anche l’Europa. Washington potrebbe aumentare i dazi sull’import di auto dopo che un rapporto del dipartimento del Commercio ha definito il medesimo import “una minaccia alla sicurezza nazionale”, una misura questa che penalizzerebbe soprattutto i costruttori tedeschi tanto che Bruxelles ha già fatto sapere che se del caso sono pronte le ritorsioni. In questo caos c’è tuttavia un paradosso. L’Europa, politicamente nana sulla scena internazionale, emerge sempre di più come una potenza commerciale globale. Si tratta di un classico caso di eterogenesi dei fini, l’esito non voluto delle politiche protezioniste americane. Da quando nel 2016 The Donald è entrato alla Casa Bianca e ha dichiarato guerra al libero scambio e agli organismi multilaterali, infatti, l’Unione europea ha impresso una accelerazione ai molti negoziati da tempo aperti con vari paesi ed aree economiche per l’abbattimento reciproco di dazi e tariffe.
L’iniziativa ha trovato quasi ovunque porte aperte, perché il timore di restare isolati in una guerra commerciale globale ha ammorbidito la posizione di molte controparti. “C’è la fila per stringere intese con noi”, ha detto il presidente della Commissione Juncker. Con un pil di 16 trilioni di dollari e una popolazione di 500 milioni di consumatori l’Unione è pur sempre il primo mercato del pianeta. L’anno della svolta è stato il 2018, anche in considerazione del fatto che, in vista della decadenza della Commissione con le elezioni del prossimo maggio, occorreva stringere i tempi. Gli accordi più importanti sono quelli conclusi con il Canada (Ceta), settima economia mondiale, entrato in vigore alla fine del 2017, e con il Giappone, seconda economia nel ranking globale, operativo dal 1 febbraio scorso al quale i media non hanno dedicato l’attenzione che forse meritava. Il Ceta si è rivelato piuttosto vantaggioso per l’industria agro alimentare italiana le cui esportazioni lo scorso anno sono salite del 7,4 per cento. Tanto che il governo gialloverde, che in un primo momento aveva espresso con il ministro dell’Agricoltura Centinaio la sua contrarietà in chiave sovranista a una ratifica del Parlamento, di fronte alle proteste degli agricoltori e ai dati dell’export ha successivamente ammorbidito le sue posizioni: “Aspettiamo ancora un anno per decidere”. Sia il Ceta sia l’accordo con il Giappone sono in vigore “in via provvisoria”, in attesa del via libera dei Parlamenti nazionali. Ma come ha spiegato il Commissario Moscovici il potere di veto di un singolo Stato è limitato “dato che si può andare avanti con l’accordo in via provvisoria”.
Non è un caso che la Honda abbia deciso di abbandonare il Regno Unito prossimo alla Brexit per trasferirsi sul Continente dopo l’intesa Tokio-Bruxelles. Attualmente la Ue ha in piedi accordi di libero scambio (Fta, Free trade agreements) con 36 paesi, dai più piccoli ai maggiori ad Ovest come ad Est. Ma negli ultimi due anni oltre al Ceta e al Giappone è stato rilanciato il negoziato con i paesi del Mercosur (Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay) fermo da anni. E’ stato esteso ai settori dell’auto, del food, dei servizi, degli investimenti e degli appalti il preesistente accordo con il Messico. E’ stata chiusa l’intesa con Singapore, cruciale per il settore dei servizi finanziari. E’ in arrivo un accordo con il Vietnam. Mentre si sono aperti i negoziati per la liberalizzazione degli scambi con Australia e Nuova Zelanda. E’ come se l’economia europea viaggiasse per forza di inerzia su binari apparentemente contraddittori con quelli di una politica che vede aumentare nazionalismi e sovranismi, così facendo di un nano politico un gigante commerciale.