La rivolta del nord est
Duro j’accuse dagli imprenditori vicentini a un governo (non bicolore ma unito) contro lo sviluppo economico. Le imprese nei distretti più forti non sono mai state così scoraggiate
Al direttore - Gli imprenditori vicentini non credono più nel futuro del nostro paese. Ce lo mostra molto chiaramente questo numero: meno 26,9. Indice che, in una scala che va da meno 100 a più 100, descrive il sentiment degli imprenditori berici sullo stato di salute dell’economia a sei mesi, secondo l’analisi che l’équipe del professore dell’Università di Verona Andrea Beretta Zanoni realizza per il Centro Studi di Confindustria Vicenza. Un’associazione la nostra, giusto per chiarire il concetto a chi specula sui grandi lobbisti o sui “prenditori”, composta per il 72 per cento di piccole aziende con meno di 50 dipendenti, per il 24 per cento di medie e solo per il 4 di grandi imprese. Un valore dell’indice pari a meno 26,9 è tremendo: significa che non crediamo nel prossimo futuro. Tanto più se si pensa che giusto un anno prima di questa rilevazione, a gennaio 2018, quell’indice era positivo, al più 0,8. E che prima di allora il minimo storico da quando lo calcoliamo (luglio 2015) era stato meno 9,8, oltre 15 punti superiore ad oggi.
“Non c’è mai stata una fiducia così bassa nel futuro prossimo del paese. E un governo tutto anti industria ne è la causa primaria”
“Gli imprenditori non possono più tollerare un governo che sembra un comitato elettorale. Si vuole che le imprese vadano via?”
Questo indice dovrebbe far pensare e preoccupare chi oggi in Italia prende le decisioni che riguardano il futuro di tutti i cittadini del nostro amato paese. E non mi riferisco solo ai ministri Giovanni Tria e Luigi Di Maio, ma al governo tutto, che non è bicolore, ma è uno e uno solo. Lo preciso perché magari sui giornali si mostrano come due anime conviventi per dare un colpo al cerchio e uno alla botte, ma quando c’è da “congelare” la Tav Torino-Lione, votano tutti compatti. Compresi i parlamentari leghisti del nord. E quindi sono tutti responsabili, nessuno escluso.
L’onestà intellettuale, diversa dal tifo politico che infesta il dibattito pubblico, mi porta a precisare che quel meno 26,9 non è dovuto solo alla nostra politica. La congiuntura internazionale è cambiata in peggio grazie a Trump e al suo scontro aperto con Cina, Iran e Germania (il nostro vero traino), alla Brexit e a un’Europa che è la nostra casa ma anche, troppo spesso, una nostra pena. Si tratta di elementi che influiscono direttamente nelle dinamiche economiche del nostro paese e tanto più di Vicenza, provincia più manifatturiera d’Italia e soprattutto prima provincia per export pro-capite.
Ma perché allora, pur se in un contesto così difficile, è l’Italia l’unico paese dell’Europa a 28 con un’economia sottozero (dati Eurostat per il quarto trimestre 2018)?
Prima di provare a dare delle spiegazioni, poniamoci a osservare i fatti guardando il bicchiere mezzo pieno. Perché i francesi di Kering investono a Vicenza rilevando e investendo in Bottega Veneta? Perché giapponesi e americani investono nell’industria delle pompe idrauliche della nostra provincia, in Ebara e in Lowara? Perché l’azienda farmaceutica italiana, ormai multinazionale, Zambon investe 30 milioni a Vicenza per produrre il Fluimucil per il mercato cinese anziché delocalizzare questa parte della produzione destinata ad un mercato così lontano?
La risposta è uguale per tutti: perché il contesto veneto è favorevole all’industria manifatturiera. Perché, in Veneto, la stragrande maggioranza dei cittadini vuol bene alle aziende manifatturiere. Esiste un “idem sentire” che percepisce il valore sociale delle imprese industriali, creatrici di benessere e ricchezza diffusi. L’imprenditore veneto, nella stragrande maggioranza dei casi, lavora in azienda con la passione di chi ha un ideale: la molla che fa scattare questa passione non è la sete di denaro, è la stessa che scatena la passione amorosa. Un fuoco straordinario alimentato da pulsioni profonde, dalla ricerca di soddisfare bisogni radicali e intimi, prima ancora che da bisogni materiali. Questo afflato culturale, questa voglia di rivalsa di un territorio che è stato fino a non molto tempo fa terra di contadini e di emigranti, ha portato le nostre imprese associate a risultati davvero positivi anche nel 2018: produzione più 2,3 per cento, fatturato Italia più 2,8, fatturato Ue più 2,5, fatturato intra-Ue più 2 per cento.
Ma allora, in questo contesto, perché l’imprenditore vicentino e veneto non sopporta più la situazione che si sta profilando nella politica economica e industriale dell’esecutivo?
La ragione sta nell’atteggiamento assunto dal governo centrale: esiste un preconcetto anti impresa che scoraggia l’impegno di capitali e l’assunzione di persone.
E’ ormai evidente e si diffonde la sensazione che per questo governo non ci sia interesse al sostegno dell’impresa piccola e grande e che non sia centrale lo sviluppo economico attraverso lo sviluppo del libero mercato, degli investimenti pubblici e privati, della creazione di un contesto favorevole all’impresa. Le azioni di politica economica sembrano invece indirizzate a mortificare le imprese, di qualunque settore e dimensione. La burocrazia dilaga, le tasse non diminuiscono, le norme sono sempre più complicate.
Sembra che a un metaforico bivio dove da una parte ci fosse la via dello sviluppo e del lavoro e dall’altra parte quella del “no-a-tutto” e dell’assistenzialismo, chi è al governo sceglierebbe sempre la seconda, elettoralmente più comoda ma drammatica per il nostro paese.
La politica industriale non esiste, non compare nell’agenda del governo alcuna attenzione ai temi della competitività, dell'innovazione, degli investimenti. Il modello dello sviluppo economico si basa esclusivamente su un approccio dal lato della domanda, ossia dei consumi.
Il blocco delle infrastrutture è un segnale forte che coincide perfettamente con questa visione. Le risorse destinate alla Tav e alle altre opere vanno, per il governo, reindirizzate verso la redistribuzione, per alimentare i bisogni delle fasce deboli e i consumi. Semplificando, questo modello mette al centro il cittadino consumatore con l’aspettativa che la domanda di beni e servizi stimoli il mercato interno, la produzione e di conseguenza l’occupazione.
In Veneto il modello è esattamente l’opposto: le imprese investono, aumentano la produttività e la competitività. I beni prodotti sono per la maggior parte destinati al mercato europeo e mondiale, generando un forte surplus commerciale che viene reinvestito. La crescita degli investimenti e della produzione industriale genera un forte fabbisogno di risorse umane, non sempre disponibili. L’aumento degli occupati ha poi come conseguenza la redistribuzione di ricchezza. Analogamente, in carenza di figure professionali necessarie all’evoluzione tecnologica, si spinge sulla scuola e l’università per alzare il livello di conoscenze e di competenze dei giovani. La proiezione non è il mercato interno ma il mercato mondiale, lo sviluppo è basato tutto sull'export e sulla bilancia commerciale in forte attivo.
L’industria manifatturiera veneta si sente ed è parte integrante del polo manifatturiero europeo, ne condivide i linguaggi, le regole, gli standard, la qualità. E’ un modello basato sullo sviluppo delle competenze e della competitività. Il “modello Veneto” richiede una visione di lungo periodo e stabilità del contesto. Richiede investimenti, soprattutto nella formazione, richiede infrastrutture adeguate, richiede stabilità e continuità. Il cambiamento repentino degli scenari e la mancanza di una politica industriale, invece, mina alla base la fiducia degli imprenditori.
La distanza percepita dalla politica economica ed industriale “romana” cresce di settimana in settimana. La sfiducia delle imprese, che si riflette direttamente sugli investimenti e quindi sulla competitività e infine sulle assunzioni, è l’ovvia conseguenza di una politica che perpetua un modello di spesa improduttiva per accontentare delle sacche di elettorato a spese di tutti gli altri
Quella del reddito di cittadinanza, in particolare, e di tutte le altre misure pensate a deficit con peraltro una stima di crescita del pil purtroppo irrealistica, mettono invece una mano nel portafogli di chi produce ricchezza in questo paese con il proprio lavoro.
Esiste – ovviamente non solo in Veneto – una grande massa di piccoli e medi imprenditori di tutti i settori, con i loro collaboratori, che pensano soprattutto a lavorare. Questa grande massa ha la sensazione crescente di non ricevere nulla dallo stato italiano. Ogni novità che arriva complica sempre più il contesto in cui operano i professionisti, i piccoli imprenditori, i commercianti, le imprese industriali. Il nemico numero uno per gli imprenditori veneti è la burocrazia ed il mostro crescente delle norme complicatissime e inutili. Nessuno dei governi degli ultimi venticinque anni ha lasciato traccia di semplificazione, di riduzione della burocrazia.
Il cittadino medio Veneto ha ancora saldi alcuni principi che traggono origine da radici di un popolo povero, quale era prima della guerra. Lo sviluppo dell'industria e del turismo (primo in Italia) è visto come un punto di partenza per la redistribuzione della ricchezza, che nei fatti è avvenuta.
Dall’altra parte, invece, troviamo un modello dirigista che cozza profondamente e intimamente contro le coscienze e la mentalità dei veneti, che vedono nello stato centrale la concentrazione di una classe dirigente interessata al potere e non all’efficienza. La volontà di statalizzare Alitalia, i rinnovi prossimi delle aziende pubbliche, la logica della nazionalizzazione della gestione delle autostrade vanno tutte nella stessa direzione: un ritorno pesante dello stato nella gestione diretta dell’economia.
I numeri dell’Italia parlano chiaro: per rimediare a una situazione patologica delle finanze pubbliche e ad un modello palesemente decadente e perdente, bisogna puntare sulla crescita del pil basata sull’industria manifatturiera. Non ci sono scorciatoie o trucchetti comunicativi e mediatici.
La percezione di uno stato inefficiente, incapace di sostenere lo sviluppo dei territori vincenti collegati con il sistema manifatturiero europeo, trova palese evidenza nella richiesta di cambiamento del modello attraverso l’autonomia. L’adesione trasversale e altissima, attraverso il referendum del 22 ottobre 2017, alla richiesta di cambiamento del modello è il modo civile e pacifico con cui i veneti oggi danno un segnale forte alle istituzioni nazionali. Il modello attuale non funziona e se l’orientamento del governo sembra ancora una volta quello di volere rimandare al futuro il problema, la cosa non passerà sottotraccia in Veneto.
Il concetto di autonomia coincide con l’esigenza di riforme istituzionali improrogabili: una seria legge elettorale, una semplificazione del modello del bicameralismo, il cambiamento del rapporto tra stato e comuni, trattati come esattori per conto terzi di tasse e depauperati delle risorse locali necessarie a far fronte ai bisogni quotidiani dei cittadini.
Tutto questo non significa chiudersi nel proprio orticello. Come detto, nel bene e nel male l’Europa è la nostra casa perché la politica estera degli stati forti nel mondo coincide in toto con la politica economica che determina la nostra dinamica industriale. Stati Uniti, Cina, Germania, Giappone, Francia sono protagonisti di una sfida che si gioca sulle grandi vie di comunicazione, sulle regole del commercio internazionale, sui temi dei dazi, sulle alleanze strategiche funzionali, al confronto che si gioca sui mercati.
Le alleanze con i partner europei sono imprescindibili per l’Italia se non si vuole che l’industria manifatturiera italiana subisca le decisioni prese da Francia e Germania nell’interesse dei loro gruppi industriali. Cosa che peraltro sta accadendo proprio in questi giorni. Se un tempo l’Italia ambiva ad essere, e in taluni casi era, il terzo vertice del triangolo industriale europeo con i cugini francesi e gli amici-rivali tedeschi, oggi un atteggiamento diplomatico drammatico di alcuni membri del governo ci relega a subire, altro che sovranismo!
L’industria vicentina è vincente perché è profondamente integrata con il distretto manifatturiero europeo. Il mercato italiano è oramai secondario per noi ed è inaccettabile che la politica estera del governo sembri invece lavorare per il Re di Prussia.
Concludendo, Vicenza è ancora un’isola felice, ma fino a quando? In queste condizioni congiunturali e con le prospettive buie che si stagliano all’orizzonte, mi domando perché al governo continuano ad occuparsi di questioni ideologiche senza vero impatto sulla vita dei cittadini anziché sbloccare assi portanti della nostra competitività come la Tav Torino-Lione e Brescia-Padova. Senza contare che a fronte di decisioni che vengono prese dall’oggi al domani dopo qualche decina di migliaia di click, c’è stato un referendum con milioni di voti, quello sull’autonomia, su cui una gran parte del governo pone ostacoli e freni. Fino a quando? Fino alle elezioni di maggio? Abbiamo un governo o un comitato elettorale?
Un barlume di speranza emerge quando leggiamo alcune posizioni di buon senso, come quella di Tria che in riferimento alla Tav dice che nessuno verrà ad investire in Italia se non si rispettano i patti; o come quella di Conte che in prima pagina sul Sole 24 ore dice che è in dirittura d’arrivo un piano di investimenti veri e la fondamentale riforma del Codice degli Appalti. Solo che dopo i contorsionismi e la politica del rinvio di questi mesi, semplicemente non ci fidiamo. Vedremo i fatti, poi batteremo le mani, in caso.
Ma a questo punto abbiamo bisogno di capire se il governo vuole mantenere in Italia le imprese manifatturiere o se vuole che queste prendano altre strade, perché quella sulla Tav e quindi sul corridoio europeo che collega il nostro paese all’ovest e all'est dell'Europa (mica si tratta di fare una gita a Lione), è prima di tutto una decisione di politica industriale. Non si fa la Tav? Allora si è deciso che l’industria, nel secondo paese manifatturiero d’Europa, non conta più nulla.
Luciano Vescovi è il presidente di Confindustria Vicenza