Promuovere la stabilità sociale con il reddito di cittadinanza? Impossibile senza crescita
Nella maggior parte dei casi il sussidio sarà permanente, non temporaneo come nei piani del governo. Se la misura è strutturale, bisogna ripensare a come finanziarla
Il reddito di cittadinanza è partito. L’iter burocratico è iniziato la scorsa settimana con la presentazione delle domande. L’avvio è avvenuto senza troppe file e intoppi, nonostante nei primi giorni siano già state registrate oltre 300 mila richieste. A regime, l’Istat ha stimato che saranno coinvolte circa 3 milioni e mezzo di persone, quasi un milione e trecentomila nuclei familiari. Come previsto dal decreto, i beneficiari del misura verranno suddivisi tra chi dovrà sottoscrivere il “Patto per l’inclusione sociale” e chi dovrà sottoscrivere il “Patto per il lavoro”. I primi, che rappresentano circa due terzi dell’intera platea, sono considerati non “occupabili”, ossia non in grado di svolgere un’occupazione, almeno non nel breve termine perché in situazioni di disagio o forte esclusione sociale. Saranno, quindi, affidati ai servizi sociali e inseriti in un percorso di assistenza e supporto. E’ verosimile immaginare che questi soggetti percepiranno il reddito per un periodo ben superiore ai diciotto mesi (rinnovabili, ma quante volte?) stabiliti dal governo. Nei casi più complessi, il sussidio potrebbe essere erogato anche “per sempre”, come spiegato dallo stesso ideatore della misura – il Professor Pasquale Tridico – in un’intervista del 28 gennaio scorso al Corriere della Sera.
Il rischio che il reddito di cittadinanza abbia una durata piuttosto lunga è concreto anche quando a beneficiarne saranno gli “occupabili”. Secondo le stime elaborate dall’Istat, fanno parte di questo secondo gruppo circa 800 mila individui, per lo più, privi di un titolo di studio (o con al massimo la licenza media) e privi di un’occupazione (le casalinghe sono circa la metà). I Centri per l’impiego avranno il compito di favorire il loro inserimento nel mondo del lavoro. Si faranno carico di disegnare un percorso formativo specifico per ognuno, per poi proporre fino a un massimo di tre offerte “congrue”, ossia “coerenti con le esperienze e le competenze maturate” e all’interno di un determinato raggio chilometrico dalla residenza del destinatario. Trovare offerte di lavoro “congrue” non sarà un’impresa facile per almeno tre motivi. In primo luogo, se la valutazione della “distanza” di un’offerta di lavoro è immediata, quella sulla “coerenza” con il curriculum lascia ampio spazio alla discrezionalità dell’esaminatore. In secondo luogo, più della metà dei richiedenti è residente al sud, dove il tasso di disoccupazione sfiora il 20 per cento. Infine, con l’economia italiana in recessione (l’Ocse ha stimato per l’anno in corso una flessione del pil pari allo 0,2 per cento), le assunzioni da parte delle imprese subiranno un calo significativo.
A conti fatti, la platea dei percettori sarà composta per il 60 per cento da persone che non possono lavorare e per il 30 per cento da persone che il lavoro lo troveranno con grande difficoltà. Il reddito di cittadinanza non può, quindi, essere considerato – come fa il governo – un sostegno temporaneo: nella maggior parte dei casi è un sussidio permanente. I circa 8 miliardi di euro annui di costo dovrebbero, di conseguenza, essere finanziati in maniera strutturale. A questo proposito, nella legge di Bilancio varata a fine dicembre sono stati identificati due tipi di coperture: più debito per l’anno in corso e più tasse per il biennio 2020-2021. In particolare, è stato predisposto un incremento dell’iva per oltre 50 miliardi di euro attraverso il ricorso alle cosiddette “clausole di salvaguardia”. Il governo, tuttavia, ha assicurato che la pressione fiscale non aumenterà. Le suddette clausole verranno “disinnescate”. Ci sono due modi per farlo: ridurre le spese oppure aumentare il debito. L’annunciata spending review (il Movimento 5 stelle aveva promesso tagli per oltre 30 miliardi) non è ancora partita, ed è assai improbabile che il governo voglia iniziarla proprio in una fase di recessione. Resta, quindi, il “disinnesco in disavanzo”, una strada percorsa anche dai governi precedenti. Le conseguenze di una simile scelta sono note. Riportare il rapporto debito/pil, il secondo della zona euro, su una traiettoria crescente significa aumentare il grado di vulnerabilità del nostro paese e, quindi, il livello dello spread. Uno spread elevato ha un impatto negativo non solo sui conti pubblici – che peggiorano – , ma anche sull’economia reale– che rallenta a causa dei maggiori costi per le famiglie e le imprese. L’effetto ultimo è quello di minare l’efficacia del reddito di cittadinanza. Senza crescita, la torta da redistribuire diventa, infatti, sempre più piccola. L’erogazione del sussidio richiederà, pertanto, l’emissione di ulteriore debito. Ciò significa nuove spese per interessi che creano distorsioni e sottraggono risorse – ad esempio – per la sanità e la scuola, beni pubblici normalmente utilizzati dalle fasce più deboli della popolazione, proprio quelle si intende tutelare.
Finanziare il reddito di cittadinanza con soldi presi a prestito è, pertanto, una scelta miope. Eppure, il governo è convinto che “la stabilità sociale” – che verrà assicurata dall’erogazione del sussidio – sia “più importante della stabilità finanziaria”: lo stesso premier Conte lo ha precisato in diverse occasioni. Ciò che è avvenuto nell’autunno scorso, però, dovrebbe far riflettere: al solo annuncio di un possibile aumento del debito, lo spread ha superato quota 300. Sebbene sia poi calato, resta ancora su livelli superiori a quelli di un anno fa (a riprova che la salita è veloce, ma la discesa è lenta), con un impatto recessivo sul pil.
In conclusione, l’esperienza di questi mesi mostra che senza stabilità finanziaria, non c’è crescita, e senza crescita non ci può essere stabilità sociale. Chi pensa che si possa promuovere la stabilità sociale senza crescita rischia di fare le scelte sbagliate per il paese.