Sovranisti & banchieri. Assalto al feticcio dell'indipendenza
I politici populisti e la finanza internazionale si scontrano per il governo della moneta. Ma in fondo hanno lo stesso scopo: denaro facile per i bisogni immediati. Un'idea che (in futuro) pagheremo noi
Viviamo tempi complicati lascia capire Claudio Borio, capo del dipartimento monetario della Bank for international settlements (Bis) di Basilea, presentando l’ultima rassegna trimestrale. Popolati da singolarità finanziarie esoteriche comprensibili solo agli specialisti – la dispersione dei tassi di interesse sui mercati monetari – e altre essoteriche chiare a chiunque osservi anche distrattamente il panorama finanziario. Fra queste primeggia la dipendenza che orma sfiora il patologico fra l’azione delle Banche centrali e gli umori dei mercati. “Le oscillazioni dei prezzi delle attività – osserva Borio – hanno evidenziato ancora una volta la relazione straordinariamente stretta tra le Banche centrali e i mercati finanziari. I mercati finanziari analizzano ogni parola e azione delle Banche centrali, reagendo a esse con alti e bassi, e cercando perenne conforto. Le Banche centrali, a loro volta, esaminano i mercati finanziari per capire meglio cosa riserva il futuro per l’economia, in quanto i mercati riflettono e allo stesso tempo influenzano l’attività”. Sembra che il cieco guidi l’orbo. Con l’aggravante che i capricci del mercato alla fine la spuntano sempre. A inizio anno la Federal Reserve, pressata dai tumulti dei mercati di fine 2018, ha detto che avrebbe usato flessibilità sia nel percorso di rialzo dei tassi che in quello di dimagrimento del bilancio. Il suo presidente Jerome Powell ripete in ogni occasione che la banca sarà “paziente”. E sulla pazienza ha insistito più volte anche Mario Draghi, con la sua Banca centrale europea a confermare anche di recente politiche monetarie molto distese. E la festa dei mercati è ricominciata.
E’ un caso? Difficile crederlo. La Banca centrale si vorrebbe indipendente, ma, oggi come ieri, il banchiere centrale deve vedersela con due molossi sempre più ingestibili: il mercato e il potere politico. La financial dominance, ossia il rischio che la Banca centrale si faccia guidare dai mercati nel prendere la sue decisioni, e la fiscal dominance, con la politica al posto dei mercati, delimitano il sentiero lungo il quale queste entità devono disegnare un’azione che si vuole a tutti i costi definire neutra, quando è evidentemente politica sin dall’inizio, come sa chiunque conosca la storia della Banca d’Inghilterra del XVII secolo. Il problema, in un mondo dove risuonano le sirene populiste, è che questo sentiero si sta facendo sempre più stretto.
Se guardiamo ai fatti di casa nostra, possiamo trovare un riscontro dei crescenti rischi di fiscal dominance ricordando le polemiche sul rinnovo del vicedirettore generale di Banca d’Italia, Luigi Federico Signorini, ma soprattutto quella assai più importante sulla proprietà dell’oro di Banca d’Italia, con esponenti della maggioranza a ricordarne la “proprietà degli italiani” e non della Banca, e così spostando la questione dal campo puramente tecnico – alla quale appartiene – a quello assai più scivoloso delle suggestioni. L’oro è denso di significati, d’altronde. E il suo possesso è sempre stato associato al potere. Dire che l’oro appartiene al popolo implica che debbano disporne i loro rappresentanti. E questo è il modo politico per ribadire un concetto sempre più cliccato dai social-populisti: il governo deve controllare la moneta. E soprattutto deve farlo direttamente.
La messa in discussione del principio dell’indipendenza della Banca centrale, che già Ricardo aveva teorizzato agli inizi del XIX secolo e che diventa addirittura un obiettivo auspicato dalla Lega delle Nazioni nel 1920 “per garantire la stabilità dei prezzi”, fa chiaramente parte delle piattaforme politiche populiste. E questo non dipende solo dal fatto che viene associato, con una certa faciloneria, ogni virtù economica al controllo diretto della moneta, con le Banche centrali nel ruolo di volenterosi compratori di ultima istanza dei titoli sovrani. Ci sono all’opera, in questo metaforico battere i pugni sul tavolo, questioni più sottili.
Il politico populista e il Banchiere centrale sono antropologicamente diversi. Le primazie nazional-populiste sono agli antipodi dell’internazionalismo del central banking, che non condivide soltanto una lingua – l’inglese – ma anche un sistema valoriale che si manifesta in una autentica Weltanschauung. Non ci sarebbe nulla di strano a leggere che “dovremmo dare al mercato, che ha una profonda saggezza, un ruolo decisivo da svolgere nell’allocazione delle risorse”, salvo per il fatto che a pronunciarle sia stato Yi Gang, governatore della People’s Bank of China. Né dovremo stupirci se un altro banchiere sottolinei che “i governi cambiano, ma le Banche centrali rimangono”, anche se a dirlo è stato Ariff Ali, governatore della Reserve Bank of Fiji. Sono solo due dei tanti esempi che si potrebbero fare. Il punto è che posti diversissimi, con culture ancora più diverse convergono su principi simili. Caso più unico che raro. Questo strano circolo Pickwick di banchieri centrali somiglia all’ultima ridotta internazionalista che si oppone allo straripare del nazional-social-ismo. O almeno così lo percepiscono i populisti, che per questo mal lo sopportano. Gli strattoni sempre più ruvidi che i politici impartiscono ai banchieri, in tal senso, somigliano ai saliscendi dei mercati che a loro vogliono imporsi.
Mercati e politici vogliono in fondo la stessa cosa: denaro sempre più facile per provvedere all’oggi assai più che al domani. A fronte di ciò le Banche centrali cercano rimedi estremi al male estremo di un sistema finanziario malato di esuberanza irrazionale, come diceva un banchiere centrale ormai in pensione, Alan Greenspan.
Fra le tante elucubrazioni vale la pena ricordarne una arrivata di recente dal Fondo monetario internazionale (Fmi) – “Monetary Policy with Negative Interest Rates: Decoupling Cash from Electronic Money” – che parte proprio da una semplice constatazione: la crisi prima o poi arriva, per pura fisiologia. A quel punto cosa possono fare le Banche centrali, che hanno già costretto i tassi di interesse a viaggiare attorno allo zero e in molti casi anche sotto?
La domanda incorpora il pregiudizio teorico, che informa il central banking e lo connota idealmente come potere politico, ossia che la moneta sia un bene pubblico, quindi da gestire pubblicamente. Da questo pregiudizio scaturisce il secondo, che affonda le sue radici in memorie lontanissime, delle quali si trova eco persino nella Teoria generale di Keynes, quando ricorda l’opera di Silvius Gesell, ossessionato – come in qualche modo lo sarà anche Keynes – dall’idea che il denaro non speso sia la radice di ogni male economico. Gesell voleva bollinare il contante a scadenza, per svalutarne il valore nominale, così spingendo i detentori di moneta a spenderla. Keynes avvertiva del rischio della trappola della liquidità. Le Banche centrali portano i tassi sottozero per stimolare, per via monetaria, la domanda aggregata, sostanzialmente facendone pagare il prezzo ai creditori. La linea teorica, pure se disegnata frettolosamente, è chiara.
E qui arriviamo all’idea del Fmi. Le Banche centrali non hanno più spazio per agire perché dopo lo zero lower bound l’unica cosa che si potrebbe fare è portare i tassi sui depositi in ampio territorio negativo. Ma questo non è possibile finché esiste il contante. Nessuno lascerebbe denaro in banca a fronte di tassi negativi, visto che il contante ha il vantaggio di potere esser conservato (quasi) senza costi. Il contante quindi è un problema. E per risolverlo è sufficiente che un paese adotti una doppia moneta, una elettronica e una contanti, che facciano ovviamente riferimento allo stesso conio ma che siano in rapporto fra loro attraverso un rapporto di conversione fissato dalla Banca centrale. In tal modo un tasso negativo sulla valuta digitale si può trasferire su quella analogica e fissando i prezzi in valuta digitale, ogni variazione del tasso di cambio fra le due valute si ripercuoterebbe sul contante, fino a renderlo inutile. In questo modo la Banca centrale potrebbe controllare senza alcun limite il valore della moneta mettendo inoltre fine alla tesaurizzazione. Per evitare la trappola della liquidità basta renderla costosa. Non è tanto diverso da quello che proponeva Gesell.
Così la Banca centrale avrebbe in mano uno strumento potentissimo per regolare l’economia e potrebbe persino far pace coi governi, che continuerebbero a scaricare sulla politica monetaria, che il popolo non capisce, il loro rifiuto sistematico a regolare la politica fiscale, che il popolo capisce benissimo. La Banca ha lo strumento perfetto. In questa favola il governo può continuare a spendere. Il contribuente (ignaro) paga. E tutti vivono felici e contenti.