Le nozze tra Deutsche Bank e Commerzbank mettono in luce il nanismo bancario italiano
Mentre la Germania migliora la propria competitività sulla scena internazionale, l'Italia resta impantanata in un dibattito sterile. Le opinioni di Bernardi (Fidentiis) e di Resti (Bocconi)
Milano. Se questa fosse la volta buona per le nozze tra Deutsche Bank e Commerzbank, nascerebbe un gigante europeo del credito, con un'anima che è metà banca commerciale e metà investment bank, in grado di competere con i grandi gruppi americani. Non che questo cambi il quadro di un'Europa che esce piuttosto malconcia dal confronto con gli Stati Uniti in quanto a pesi e numeri del settore bancario. Come ha messo in luce Lorenzo Bini Smaghi, presidente di Société Générale, in una recente analisi pubblicata su Astrid – dal 2007 a oggi il valore complessivo delle banche statunitensi è aumentato di circa il 50 per cento mentre quello europeo è sceso di un terzo. Ma il merger tedesco mette in evidenza che i due paesi in cui il settore bancario è oggi meno redditizio e più frammentato, cioè Italia e Germania, hanno preso direzioni diverse per affrontare il problema della dimensione. La Germania marcia a passo svelto verso l'aggregazione tra due campioni nazionali migliorando la propria competitività sulla scena internazionale e l'Italia resta impantanata nel dibattito su un improbabile risiko bancario sotto la regia del governo giallo-verde. Per la verità, è un po' che non se ne parla e non è un caso.
La fusione tra due istituti di media grandezza come Unipol e Bper ha dimostrato che tali operazioni vanno in porto quando c'è la possibilità di creare valore per gli azionisti e, perché no, di superare debolezze strutturali delle parti coinvolte, ma che è il mercato a dire se stanno in piedi. A meno che il governo, come è accaduto nel 2016 con le banche venete, o come potrebbe accadere oggi in Germania, non decida in modo trasparente di dover intervenire a favore del consolidamento, non senza aver prima trattato le condizioni con la vigilanza europea. Come spiega Fabrizio Bernardi, analista del gruppo d'investimenti internazionale Fidentiis, “oggi l'unico vero potere decisionale sul settore bancario è nelle mani della Bce, che fa scattare il semaforo rosso o verde su una fusione sulla base di parametri che verificano soprattutto la solidità patrimoniale del nuovo soggetto. In passato, per esempio, il governo italiano esercitava una certa influenza nel mondo delle banche popolari. Ma ora che quasi tutte si sono trasformate in spa e non funziona più così. Le operazioni di fusione devono passare attraverso le assemblee straordinarie dei soci i quali decidono in base al proprio interesse che è la remunerazione del capitale investito”.
In effetti, anche nel caso di Carige, in cui tre commissari stanno cercando da mesi di salvare la banca ligure dal crac, il socio Malacalza (27,7 per cento del capitale) non mancherà di far sentire il suo peso nell'assemblea di aprile che dovrà approvare il nuovo piano industriale e l'ingresso di nuovi azionisti (si parla di alcune manifestazioni d'interesse di fondi esteri al vaglio della Bce). Dunque, il mondo degli investitori finanziari non crede in operazioni che nascono con una regia politica. Se chi governa decide di voler evitare un “bail in” o una liquidazione coatta amministrativa, perché questo coinvolge i risparmiatori e si riflette sul consenso, allora deve dirlo ma non può forzare la mano in processi che coinvolgono capitali privati. L'amministratore delegato di Ubi Banca, Victor Massiah, per esempio, non ha mai smentito di aver analizzato il dossier Mps, ma ha sempre fatto capire di non essere interessato a meno che Palazzo Chigi non si decida a mettere una 'dote' sul piatto.
Ma allora come si esce dal nanismo bancario italiano? “Ma dobbiamo proprio uscirne? - si domanda in modo provocatorio Andrea Resti, professore di finanza alla Bocconi con alle spalle due mandati di vice presidente del comitato consultivo dell'Eba, l'autorità bancaria europea, e consulente del parlamento europeo della vigilanza bancaria – Tra i vari problemi che affliggono il nostro paese ne vedo almeno una quindicina più urgenti. A parte questo, credo che la competitività del sistema bancario non dipenda dalla dimensione. Il punto vero è rappresentato dalla scarsa redditività del business bancario per gli investitori. Oggi si guadagna di più ad aprire una pizzeria che ad essere soci di una banca”. Secondo Resti, la strada da percorrere è quella dell'innovazione tecnologica, come dimostra l'esperienza di alcuni attori medio-piccoli che “sono più dinamici e competivi sul mercato del credito di quanto non siano i giganti usciti dalle operazioni di fusione appesantiti dall'eredità del passato da cui provengono”.