Marco Biagi (foto Imagoeconomica)

La lezione di Marco Biagi è sempre valida: chi sta al governo ne prenda nota

Giuliano Cazzola

Oggi qualcuno dovrà pur prendere atto che il diritto del lavoro si avvia ad abbandonare il principio della libera contrattazione e a essere imposto dalla legge

Quando, il 19 marzo di diciassette anni or sono, Marco Biagi veniva assassinato, davanti a casa, da un commando brigatista, Giggino Di Maio era ancora un adolescente alle prese con l’albo delle figurine dei calciatori. E’ forse questo il motivo per cui i suoi anatemi si sono concentrati sul Jobs Act (“Sia dannato il giorno in cui venne fatto il Jobs Act. Chi lo ha fatto non deve essere chiamato statista ma assassino politico”) senza mai risalire alla persona che di quel pacchetto era stato ispiratore, pagando con la vita l’impegno per modernizzare il diritto del lavoro.

 

Chi era Marco Biagi? La migliore descrizione del pensiero e dell’opera del marito l’ha fornita Marina Orlandi, colei che tiene viva la memoria di Marco alla guida della Fondazione a lui dedicata: “Proprio nei giorni in cui è stato ucciso ricordo che Marco mi parlava di una cosa che riguarda i ragazzi. Era consapevole che la società si stava trasformando e che un lavoro per tutta la vita, lo stesso a tempo indeterminato, sarebbe stata una cosa praticamente impossibile, sarebbe arrivata tardi nella vita delle persone. Aveva in mente che bisogna difendere i lavori brevi. Purtroppo ci sarà questa precarietà, diceva Marco, però dobbiamo renderla una precarietà protetta, fare in modo che le persone che non hanno un lavoro protetto abbiano anche dei diritti, siano protette, che una persona non trovi solo un lavoro in nero”.

 

Sta proprio in queste parole la novità del contributo di Biagi: nel rifiuto di considerare deviazioni, violazioni di un ordine superiore, quei rapporti di lavoro non riconducibili a un contratto a tempo indeterminato, con annessi e connessi sul piano delle tutele. E per tale convinzione incontrò quelle ostilità che ne fecero un simbolo, un “uomo da bruciare’’ perché voleva regolare – anche sul piano dei diritti – quei rapporti non standard che, nel pensiero della sinistra (quella di allora?), dovevano soltanto essere vituperati, condannati, interdetti e aboliti, perché erano considerati un cedimento ai padroni e non un’esigenza di un mercato del lavoro che pretendeva flessibilità in entrata (attraverso nuove regole) e in uscita (superando il dogma dell’articolo 18 dello Statuto).

 

Anche quest’anno molte iniziative ricordano il professore. A Modena – il che è significativo – era presente anche il presidente Sergio Mattarella. Come ha ricordato Michele Tiraboschi, l’allievo prediletto che ha raccolto intorno a sé una vera e propria scuola di giovani talenti: “L’Italia è un paese che confonde la manutenzione della memoria con la commemorazione’’. Oggi qualcuno dovrà pur prendere atto che il diritto del lavoro si avvia ad abbandonare il principio della libera contrattazione e a essere imposto dalla legge, persino per quanto riguarda l’aspetto fondamentale e originario del negoziato sulle retribuzioni (le “tariffe’’ delle origini).

 

E’ in corso una vera “nazionalizzazione’’ del diritto del lavoro, a cominciare dai salari. Mentre arriva in Aula alla Camera il decreto sul Reddito di cittadinanza (RdC), la commissione Lavoro del Senato ha iniziato, infatti, l’esame del ddl Catalfo (e dei disegni degli altri gruppi) sul terzo lato del “triangolo della morte’’ a cui è condannato, oggi, il diritto del lavoro. Cominciamo dal lato di base. Chi è fuori dal mercato del lavoro o si appresta a entrarvi – a certe condizioni personali e di reddito – può ricevere per diciotto mesi, rinnovabili, un assegno mensile di 780 euro (altri importi sono previsti in ragione della composizione della famiglia). Durante questo periodo il soggetto diventa “creditore’’ passivo di attività formative e di almeno tre proposte di lavoro congrue, che possono essere rifiutate se il salario corrispondente è inferiore a 858 euro mensili. Nel frattempo si stabilisce (se il ddl Catalfo andrà avanti con l’impostazione attuale) che la retribuzione “proporzionata alla quantità e qualità del lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare al lavoratore e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa’’ – come sancita dall’articolo 36 Cost. – non può essere più bassa di quella prevista dal contratto collettivo nazionale in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro, stipulato dalle associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro più rappresentative sul piano nazionale e comunque non inferiore a 9 euro all’ora al lordo degli oneri previdenziali e assistenziali.

 

Ma il braccio armato dello stato non si limita a questo: in presenza di una pluralità di contratti, i minimi tabellari “corretti’’ e, quindi da assumere come parametri per l’operazione salario minimo, saranno quelli sanciti dalla contrattazione collettiva intervenuta tra le parti comparativamente più rappresentative. Così sono sistemati anche i c.d. contratti-pirata. E’ sull’introduzione del salario minimo legale (esiste alla Camera un progetto Delrio) che si svilupperanno, con Maurizio Landini nel ruolo di regista e mediatore, gli ‘’amorosi sensi’’ tra il Pd di Nicola Zingaretti e il M5s. Poi verrà il turno dell’articolo 18. Uscendo dall’incontro al ministero del Lavoro il leader della Cgil ha richiamato all’ordine Di Maio, invitandolo a mantenere le promesse elettorali in materia di licenziamenti.

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