Ma quale più export. Il nostro agroalimentare s'è perso sulla Via della Seta
“La Cina è importante per noi, che siamo un paese di esportatori. Il problema è che la Cina non è pronta alla reciprocità”. Parla il presidente di Filiera Italia, Luigi Scordamaglia
Roma. Continua la narrazione della firma di un accordo puramente commerciale da parte del governo italiano quando si avanzano dubbi sulla necessità di firmare il memorandum con la Cina sulla Via della Seta. Eppure sono molte le contraddizioni sull’aspetto più operativo, espresse perfino dai rappresentanti delle aree coinvolte. Ieri, per esempio, Coldiretti ha diffuso un comunicato nel quale sottolinea la poca reciprocità degli accordi nell’agroalimentare: “La Cina frappone ostacoli per motivi fitosanitari e chiede assicurazioni sulla assenza di patogeni della frutta non presenti sul proprio territorio con estenuanti negoziati e dossier che durano anni e che affrontano un prodotto alla volta”, scrive Coldiretti, spiegando i motivi per cui “mele, pere e uva da tavola Made in Italy sono vietate in Cina”.
Il presidente di Filiera Italia, Luigi Scordamaglia (foto a sinistra), che sarà al Business Forum di venerdì alla presenza del presidente Sergio Mattarella e dell’omologo cinese Xi Jinping, dice al Foglio che in passato questi Forum hanno aiutato molto l’export agroalimentare italiano, ma il punto fondamentale sul quale essere chiari riguarda la reciprocità: “La Cina è importante per noi, che siamo un paese di esportatori. Il problema è che la Cina non è pronta alla reciprocità. Provi a fare una gara per gestire una banchina in uno dei porti cinesi. In Europa si può venire tranquillamente attraverso l’acquisizione di maggioranze nelle varie società di gestione. Qui esiste un libero mercato. Per quanto riguarda l’agroalimentare, il problema è un altro. Più che di volumi si parla di reciprocità delle regole, che loro rispettino le regole internazionali, per esempio in materia delle indicazioni geografiche e lotta alla contraffazione”, dice Scordamaglia.
Ma allora perché il governo non si concentra su questo, invece che sull’adesione a un piano strategico internazionale e politico? “L’aspetto più di sostanza del memorandum, e l’abbiamo detto fino alla nausea, e anche alcuni esponenti di questo governo l’hanno sottolineato, è che cedere degli asset strategici non è una grande idea”. E stiamo parlando di asset strategici? “Assolutamente sì. Al porto di Triste parliamo 63 milioni di tonnellate di merci transitate nel 2018, con crescita costante. Abbiamo bisogno di capitali cinesi per valorizzare queste infrastrutture? No, perché soltanto da investire nei trasporti l’Italia avrebbe a disposizione i finanziamenti europei da 20 miliardi di euro per il periodo 2014-2020. Abbiamo appena chiuso il quarto anno e ne abbiamo speso solo il 5 per cento. Quindi non è la ricerca di capitali che ci guida. Ma solo accordi di carattere multilaterali sottoscritti nella piena osservanza delle regole Wto possono essere la strada praticabile”, dice Scordamaglia. “Il memorandum sulla Via della Seta da un lato non preoccupa realmente, perché non c’è niente di vincolante. Magari uno come me, abituato a stipulare accordi internazionali, ritiene importante il mettersi d’accordo sul foro competente. Se io e il mio socio litighiamo abbiamo dei princìpi internazionali a cui rivolgerci, ma su questo il memorandum è piuttosto fumoso. Con la Cina non vedo grandi condivisioni di linguaggi e princìpi”.