Demolire il Morandi vuol dire dimenticare

Tullia Iori, storica dell'ingegneria strutturale, invita alla riflessione sulla ricostruzione del ponte crollato a Genova lo scorso agosto. Per non prendere decisioni impulsive e potenzialmente dannose

Alberto Brambilla

Viviamo in un’epoca in cui la parola degli esperti è considerata superflua perché può risultare scomoda rispetto agli intendimenti della politica. Specularmente gli esperti risultano sconfitti, o almeno si sentono tali, di fronte alla risoluta consapevolezza con cui i non iniziati, in diverse materie tecniche, affrontano temi molto complessi con sicumera.

  

Un professore di Yale, Dan Kahan, ha detto nel 2015 che “bombardare le persone di conoscenza non serve. Non aiuta a spiegare le cose alla gente, ma eccomi qui a spiegare e a rispiegare i fatti. Forse sono io la vittima di questo scherzo”. Può essere un segnale positivo se gli esperti si ribellano agli attacchi alla loro competenza o se chiedono di essere ascoltati, vuoi per un consiglio tecnico, vuoi per aiutare nella comprensione della complessità. Quanto meno perché le decisioni prese sull’onda dell’allarmismo possono essere controproducenti. Che succederebbe se i giovani che si sono uniti alla protesta climatica di Greta venissero ascoltati alla lettera? Che succederebbe quindi se smettessimo, per davvero, da domani di estrarre idrocarburi? Probabilmente soffriremmo maledettamente il freddo (e al buio) in poco tempo, per non dire peggio.

  

L’invito basilare degli esperti è quello di riflettere per non prendere decisioni impulsive e potenzialmente dannose. Tullia Iori, storica dell’ingegneria strutturale, invita proprio alla riflessione a proposito della demolizione e ricostruzione del ponte Morandi, crollato a Genova lo scorso agosto. Al momento la propaganda governativa vorrebbe che il processo di ricostruzione venga percepito come rapido dagli italiani. Al punto che la settimana scorsa, nella sede veneta di Fincantieri Infrastructure, società che parteciperà alla costruzione del nuovo ponte, è stata presentata la “prima lamiera”. Tuttavia si è saputo che i lavori di demolizione andranno a rilento perché sono state trovate dall’Agenzia regionale per l’ambiente della Liguria tracce di amianto nella struttura rimasta in piedi (la pila otto) motivando la necessità di evitare di usare cariche esplosive. I dubbi sulla possibilità di rispettare il crono-programma per iniziare la ricostruzione entro il 2019 risultano quindi legittimi.

 

“La demolizione ha avuto una battuta d’arresto e speriamo che venga sospesa – dice Iori – Certo che se i problemi cominciano così presto sembrano difficile rispettare il crono-programma”. Secondo la storica, esperta delle strutture costruite dall’ingegner Morandi nel periodo del “boom” italiano, essersi dati dei tempi per la demolizione-ricostruzione ha a che fare più con le ambizioni della politica che con le esigenze della tecnica e della conoscenza in merito al crollo o alla storia delle infrastrutture nazionali. Per cui bisognava dare ascolto ai tecnici ed evitare la demolizione, dice. “Quel che resta del Morandi – continua Iori – è molto prezioso per ragioni conoscitive. Non sappiamo ancora cosa sia successo esattamente sulla pila numero nove (quella crollata) e non riusciremo ad accertarlo in tempi brevi. La pila dieci ci può raccontare quelle cose che la pila nove non può raccontare più perché non si sono ritrovati pezzi di strallo. La dieci era infatti sua gemella, costruita negli stessi tempi, e quindi è una testimone oculare. Distruggerla è una perdita inestimabile e farlo sarebbe come fare sparire il corpo di un reato” . Secondo Iori, docente all’università di Roma Tor Vergata, fare esplodere quanto resta del Ponte “può servire per fare un video su Instagram” ma sarebbe una “follia”.

 

Servirebbe non solamente per indagare sull’accaduto, ma anche e soprattutto per ragioni storiche e culturali. “Il ponte era un’opera conosciuta in tutto il mondo, era il più grande d’Italia. Se lo distruggiamo – dice Iori – vuol dire che non siamo stati capaci di tenerlo in piedi e addirittura ora lo vogliamo fare sparire anziché conservarlo. Conservarlo significa mantenere una testimonianza dell’ingegneria che eravamo, quando eravamo grandi. L’esplosione è particolarmente ingiustificabile perché il ponte è stato costruito per parti. La macchina con cui Morandi l’ha costruito si chiama ‘poco a poco’, è fatto per conci, e non c’è motivo di eliminarlo con una esplosione”, perché si può smontare così come è stato assemblato. Per Iori è un patrimonio di conoscenza che verrebbe eliminato. “Mi domando perché dobbiamo perdere un patrimonio così importante. Non solo perché è stato costruito con le tasse di tutti, ma è importantissimo perché racconta della storia della ingegneria, di un primato italiano. L’opera di Morandi è nel suo tempo, è permeata della storia della costruzione dei quegli anni. Morandi non inventa il ponte strallato, ma il ponte strallato omogeneizzato, ovvero costruito con calcestruzzo armato precompresso. Lui ha costruito in Italia duecento ponti. E analizzare quello di Genova ci può dire molto di come stanno i suoi ponti e di come stanno le infrastrutture, le altre strutture omogeneizzate, di quegli anni. Del loro stato di conservazione e magari di qualche problema locale che possiamo andare a correggere, perché erano cantieri artigianali fatti dall’uomo, senza grandi attrezzature, basata attorno al lavoro degli operai”. Con questo Iori non vuole dire che le infrastrutture dell’epoca siano in situazione critica o pericolosa, ma che lo studio di una delle opere di Morandi può servire, come in una indagine archeologica, a comprendere lo stato del patrimonio infrastrutturale italiano. “Il ponte si inaugura nel 1967 ma viene progettato nel 1960. L’Italia ha avuto il periodo di massima produzione infrastrutturale tra il 1947 e il 1968, dopodiché non abbiamo fatto quasi più niente”.

   

La storia del Morandi la dice lunga sia sugli errori che si possono commettere nel tentativo di risolvere velocemente problemi complessi sia di quanto l’Italia – dove poco si costruisce di innovativo oramai da quaranta anni e più – soffra una arretratezza cronica. Un racconto che alla politica probabilmente non piace ricordare.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.