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Appello per un cambiamento al governo

Guido Tabellini

Ignorare la realtà e inseguire le chimere può solo portare al disastro

Ormai è chiaro a tutti che la recessione non è ancora finita e che, nella migliore delle ipotesi, il 2019 sarà a crescita zero. Per l’anno in corso ormai c’è poco da fare. I problemi riguardano il 2020. Il rischio è che il paese entri in una spirale avversa, di debito pubblico fuori controllo, crollo della fiducia, prolungarsi della recessione. Cosa si può fare per riavviare la crescita e scongiurare gli scenari peggiori?

  

Per rispondere, è bene partire dalle cause dell’attuale situazione economica. E queste sono sostanzialmente due: 1) è rallentata la crescita mondiale; 2) è crollata la fiducia verso il nostro paese, con conseguente caduta degli investimenti e rialzo del costo del credito. La priorità ora è recuperare la fiducia dissipata nei premi mesi di questo governo.

 

Come fare? Innanzitutto, bisogna arrestare la crescita del debito pubblico. Il timore principale di molti investitori, dentro e fuori dal nostro paese, è che la crescita del debito sia ormai diventata inarrestabile. 

  

Quando il debito è troppo alto, la sua crescita si autoalimenta in una spirale avversa di alti tassi di interesse, bassa crescita e sfiducia crescente. Non siamo ancora in questa situazione, ma non ci siamo lontani. Per evitare questa trappola, il rispetto dei vincoli di bilancio deve diventare un obiettivo credibile dell’azione di governo, non perché ci viene imposto dall’Europa, ma perché lo hanno scelto con convinzione i principali leader politici. L’idea che maggiori disavanzi fiscali possano stimolare la domanda, anche se il debito pubblico è elevato, è una stupidaggine priva di fondamento. Questa idea ha già fatto danni molto gravi nell’anno in corso. Se il prossimo Def conterrà previsioni incredibili di crescita, ipotesi implausibili sull’effetto dei provvedimenti economici, o progetti insostenibili come la flat tax, avremo fatto un altro passo verso il punto di non ritorno.

 

La credibilità e l’affidabilità di un paese non riguardano solo il saldo dei conti pubblici. Esse dipendono anche dalla qualità delle istituzioni e degli uomini che vi occupano posizioni di responsabilità. A mesi diventerà vacante la posizione di Ragioniere generale dello stato. Nelle ultime legislature, questo posto è stato assegnato a personalità indipendenti e di indiscutibile valore. Se ora questa tradizione venisse meno, e il posto venisse dato a persone che si sono contraddistinte per la loro lealtà a qualche forza politica, o che sono facilmente influenzabili perché prive di alternative fuori dalla Pubblica amministrazione, la credibilità della Ragioneria sarebbe compromessa. Il primo a farne le spese sarebbe lo stesso governo, perché scoprirebbe presto che le sue valutazioni non sono più credute da nessuno.

 

In secondo luogo, occorre chiarire una volta per tutte che non ci sono dubbi o retropensieri sulla permanenza dell’Italia nell’euro. Sebbene non vi siano più state dichiarazioni apertamente ostili nei confronti della moneta unica, tutti sanno che alcuni uomini politici con rilevanti posizioni istituzionali rimangono convinti che l’Italia dovrebbe riacquistare la sua sovranità monetaria. Quanto influenti sono queste voci all’interno dei partiti oggi al governo? Cosa succederebbe di fronte alla minaccia di una nuova crisi finanziaria? I partiti di governo sceglierebbero di uscire dall’euro? Il timore che questo possa accadere è un fattore importante di sfiducia nei confronti dell’Italia. E’ responsabilità dei due vicepresidenti del Consiglio, in quanto leader dei due partiti di governo, rimuovere questi dubbi. Fare finta di niente non è sufficiente.

 

La debolezza dell’economia italiana, tuttavia, non dipende solo da un calo di fiducia e dal rallentamento della congiuntura mondiale. Da decenni è in corso un declino tendenziale. La produttività non cresce, e il paese non riesce a trarre beneficio dalla globalizzazione e dal progresso tecnologico. Le cause di questo declino sono molteplici. La produttività non cresce anche perché i salari non rispecchiano adeguatamente differenziali di produttività tra imprese, distorcendo l’allocazione delle risorse. Per rimediare, bisognerebbe dare più spazio alla contrattazione aziendale. Il cuneo fiscale sul lavoro è troppo elevato, e questo è causa di disoccupazione. Le risorse pubbliche e private dedicate a innovazione e ricerca sono troppo scarse. L’istruzione non offre ai giovani una preparazione adeguata nelle materie tecniche e scientifiche in cui è più alta la domanda di lavoro. La qualità della Pubblica amministrazione rimane troppo bassa, soprattutto al centro-sud.

 

Le riforme necessarie ad affrontare questi nodi storici dell’economia italiana sono di difficile attuazione, e i frutti si vedrebbero su tempi lunghi. Nessuno si aspetta progressi immediati in aree in cui in passato si è riusciti a fare poco o nulla. Ma è in questi ambiti che il “governo del cambiamento” può davvero fare la differenza, e sarebbe ricompensato se riuscisse a innovare. Ignorare la realtà e inseguire inutili chimere può solo portare al disastro economico.