Perché è sbagliato continuare a dire “facciamo come il Giappone”
Un alto debito in comune. Ma diversamente da Tokyo abbiamo una spesa più elevata e responsabilità verso investitori esteri
Il debito pubblico italiano in rapporto al pil continua a aumentare. Lo scorso anno ha superato il 132 per cento del pil, quasi mezzo punto in più rispetto al 2017. Un livello simile rappresenta per la Commissione europea un fattore di instabilità (alla stregua della Brexit), per gli investitori un fattore di rischio, per i contribuenti un costo in termini di maggiore spesa per interessi e maggiore spread. Come s’è visto nell’autunno scorso, uno spread che resta alto per un periodo di tempo significativo penalizza le famiglie e le imprese perché rende più costoso il denaro preso a prestito. Riportare il debito su una traiettoria decrescente dovrebbe quindi essere una priorità dell’agenda di politica economica.
Eppure le misure varate nella legge di Bilancio vanno in direzione opposta. I due provvedimenti chiave, reddito di cittadinanza e quota 100 contribuiscono, infatti, a incrementare il rapporto debito/pil visto che – per stessa ammissione del governo – hanno un impatto limitato sulla crescita (il denominatore del suddetto rapporto aumenta poco) e sono finanziati in disavanzo (il numeratore aumenta molto). Diversi esponenti di peso della maggioranza dicono che ciò non dovrebbe costituire un problema. Un debito elevato non sarebbe necessariamente fonte di instabilità o rischio. Il Giappone, per esempio, ha un debito che supera il 250 per cento del pil, ma nel paese non c’è un rischio di imminente crisi finanziaria. In sostanza, il debito non sembra essere un problema.
C’è da chiedersi, allora, se il Giappone possa essere considerato un modello da seguire. Da un’analisi dei dati si evince che l’economia del Sol Levante è assai distante dalla nostra, per almeno tre motivi. Primo, il debito è elevato ma la spesa pubblica è relativamente bassa. Il Giappone spende circa il 39 per cento del pil, 7 punti percentuali meno della media europea e 9 punti percentuali meno dell’Italia. Le entrate, inoltre, sono di circa 10 punti percentuali inferiori alle nostre (36 per cento contro 46 per cento). Nell’eventualità di una crisi, il governo nipponico disporrebbe di un margine di manovra più elevato del nostro. In altre parole, ci sarebbe ancora spazio per aumentare la pressione fiscale: da noi, una simile operazione sarebbe molto costosa sia dal punto di vista degli impatti sulla crescita sia dal punto di vista politico. Allinearsi con il Giappone implicherebbe, pertanto, una massiccia spending review, mai messa in atto finora.
Secondo, il debito è in mano ai giapponesi. In Italia, un terzo del debito è acquistato da stranieri. Replicare il modello nipponico significherebbe obbligare gli italiani a comprare solo titoli italiani. Ciò potrebbe essere possibile con l’introduzione di specifici controlli di capitali e restrizioni agli investimenti all’estero. In questo modo il debito pubblico italiano diventerebbe debito domestico. Chiudere i mercati quando si è membro di un’unione monetaria, però, non è possibile. Imporre questi vincoli significherebbe uscire dall’Euro. Veniamo al terzo punto. Il Giappone ha una propria Banca centrale che ha la responsabilità della politica monetaria. In Italia, invece, la politica monetaria è decisa dalla Banca centrale europea. Come previsto dai Trattati, la Bce – in tempi normali – non compra debito italiano. L’ha fatto in passato in situazioni di rischio sistemico, sia per abbassare lo spread in alcuni paesi con il Security market programme sia per portare l’inflazione verso l’obiettivo del 2 per cento con il Quantitative easing. Cambiare i Trattati è possibile ma in questo momento non ci sono paesi interessati a farlo. Almeno non per quanto riguarda il funzionamento dell’Istituto di Francoforte. Pertanto, per avere una Banca centrale disposta a comprare i nostri titoli, bisognerebbe abbandonare la moneta unica. Di Italexit si è smesso di parlare in autunno quando il governo con la prima bozza di legge di Bilancio stava infrangendo tutte le regole fiscali europee. Quella scelta fu percepita da chi investe in Italia come un primo passo verso l’uscita dall’euro. Risultato: spread oltre i trecento punti base, quasi due miliardi di maggiore spesa per interessi e l’inizio di una stretta creditizia che dura ancora oggi. Come ha più volte detto Mario Draghi “le parole hanno un costo”.