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C'è un'altra arma di distrazione di massa: Bankitalia

Luciano Capone

Per non parlare dei guai dell’economia, Lega e M5s risfoderano il complottismo bancario. Guida anti fake news

Roma. Come previsto, l’Italia è entrata in recessione anche a causa delle scelte di politica economica del governo. Pertanto, non sapendo come risolvere i problemi reali che ha determinato, la maggioranza si preoccupa di problemi fittizi. E così, un po’ come i teologi bizantini si affaccendavano in animate discussioni sul sesso degli angeli mentre i turchi assediavano Costantinopoli, i teologi no euro impegnano il Parlamento in un dibattito sulla proprietà dell’oro della Banca d’Italia. 

 

Questo è il punto della mozione approvata dal Senato e presentata all’Aula dal presidente no euro della Commissione Finanze Alberto Bagnai (Lega) e Laura Bottici (M5s), ai quali non è bastata la risposta sull’argomento data dal presidente della Bce Mario Draghi ai due europarlamentari no euro di Lega e M5s. Alla mozione si aggiunge una proposta di legge sullo stesso tema del presidente no euro della Commissione Bilancio della Camera Claudio Borghi (Lega). Di questa iniziativa non si comprende bene lo scopo, se è cioè quello di vendere gli 88 miliardi di riserve auree di proprietà della Banca d’Italia (finora è così, stando ai bilanci di Via Nazionale e a quanto dichiarato recentemente dal governatore Ignazio Visco) per ripianare il deficit, oppure quello di sottrarre l’oro dal controllo dell’Eurosistema e della Bce in vista di un ritorno alla lira.

 

Siccome le discussioni teologiche sul sesso degli angeli sono sempre molto minuziose, i teologi sovranisti alle disquisizioni sulla proprietà dell’oro hanno affiancato quella sulla proprietà della banca centrale, con una proposta di legge per la nazionalizzazione della Banca d’Italia firmata Giorgia Meloni (FdI), peraltro condivisa dal M5s che ne aveva presentato una analoga. Questo aspetto s’interseca con un’altra questione, molto rilevante per la galassia sovranista e complottista, peraltro recentemente sollevata da un lisergico approfondimento della televisione pubblica, che è il signoraggio: da quando c’è stato il cosiddetto “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia (che ci ha liberato dalla tassa d’inflazione), da quando siamo finiti nella gabbia dell’euro e sotto le grinfie della Bce e da quando la Banca d’Italia è “controllata dalle banche private”, lo stato ha perso il controllo della moneta e le entrate da signoraggio (che, secondo la vulgata, andrebbero ai privati). Naturalmente si tratta di sciocchezze. Basta guardare i dati presentati nei giorni scorsi dal governatore Visco nella relazione all’Assemblea dei partecipanti: gli utili della Banca d’Italia retrocessi al governo nel 2018 hanno raggiunto, proprio grazie al Qe della Bce, il livello record di 5,7 miliardi (2,3 in più del 2017) a cui vanno aggiunti 1,2 miliardi di imposte (per un totale di quasi 7 miliardi), mentre ai partecipanti privati sono stati distribuiti solo 227 milioni.

 

“Eh, ma la Banca d’Italia – e quindi il suo oro – resta sempre controllata dalle banche private!”. Neppure questo è vero, perché i partecipanti al capitale hanno il divieto di intervenire sull’esercizio delle funzioni istituzionali, non hanno alcun diritto sulle riserve auree e hanno diritti di voto e sui dividenti sterilizzati oltre il 3 per cento. Vuol dire che anche se possiedi il 15 il 30 per cento vali sempre il 3 per cento. Ed è questo il motivo per cui anche quest’anno, nonostante siano stati deliberati dividendi per 340 milioni, ne vengono effettivamente erogati solo 227. Ora è evidente che “nazionalizzare” la Banca d’Italia, un’operazione che costerebbe 7,5 miliardi di euro (tanto è il valore del capitale), sarebbe un regalo – a danno dei contribuenti – per tutte le banche che possiedono più del 3 per cento e che sono riuscite e vendere sul mercato le quote eccedenti: nessun problema, gliele compra tutte lo stato.

 

C’è un dibattito generale sull’ipotesi che la presenza di privati nel capitale possa spingere una banca centrale a concentrarsi sui profitti e sui dividendi da staccare annualmente. Proprio su questo tema tre economisti, tra cui Barry Eichengreen dell’Università di Berkeley (gli altri due sono Bartels e Di Mauro), hanno pubblicato uno studio per il Cepr (Centre for economic policy research) dal titolo “No smoking gun: private shareholders, governance rules and central bank financial behavior”. Analizzando il comportamento di 35 banche centrali dei paesi Ocse, gli economisti giungono alla conclusione che “le banche centrali con azionisti privati (come la Banca d’Italia, ndr) non differiscono marcatamente dalle istituzioni puramente pubbliche nel comportamento finanziario”. Non solo le banche centrali con azionisti privati “non riportano profitti più elevati”, ma addirittura “trasferiscono una quota più grande dei loro profitti al Tesoro rispetto alle banche centrali completamente pubbliche”. Se c’è qualcosa che fa la differenza nel comportamento di una banca centrale è la governance, non l’assetto proprietario. La discussione sul sesso degli angeli e sul signoraggio potrebbe concludersi presto, ma poi il governo e i partiti di maggioranza sarebbero costretti a occuparsi dei problemi veri dell’economia. E questo è proprio ciò che si vuole evitare. Non a caso è già pronta la Commissione d’inchiesta sulle banche, con i senatori Paragone e Lannutti nella veste di inquisitori: “Visco forse teme di venire interrogato in commissione”, ha detto al Foglio il sottosegretario grillino al Mef Villarosa. Nelle stesse ore delle roboanti dichiarazioni di Villarosa, Visco – che ha già affrontato in Commissione ostili – era all’Eief a presentare a una platea di economisti il libro sull’“Austerità” di Alesina, Giavazzi e Favero. Non sembrava preoccupato, ma tranquillo e rilassato.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali