Perché l'innovazione non si può dirigere
Storture nell’idea grillina d’indirizzare denari pubblici e privati sulle startup
“La funzione sociale del risparmio privato è mettersi al servizio della crescita di una comunità”. S’ode a destra lo squillo di Giovanni Tria, nel suo messaggio al Salone del Risparmio. A sinistra risponde lo squillo di Di Maio: con il lancio del Fondo Nazionale Innovazione (Fni) e vincolando i piani individuali di risparmio, lo stato alloca i patrimoni finanziari privati su specifiche asset class (venture capital e private equity) e investe direttamente nelle startup. Il vicepremier ha già pensato a tutto: ha identificato i settori strategici, ha trovato i fondi allocando – in modo alquanto forzoso – risparmi privati, e presto si teme che voglia scegliere anche i vincitori.
Laddove Tria sottolinea che il compito della gestione del risparmio “è selezionare le migliori opportunità per i clienti”, meglio ancora se orientandosi “verso opzioni con rendimento ambientale e sociale positivo”, l’obiettivo esplicito di Di Maio è quello di avere uno “Stato Imprenditore e Innovatore”, come titola la presentazione utilizzata a Torino per il lancio del Fondo. Uno stato che decide il terreno di gioco, gestisce direttamente il mercato dei capitali e dei talenti e determina gli esiti competitivi.
La rinnovata attenzione del governo sulla necessità di gestire in maniera professionale, con investimenti orientati al lungo termine, la grande mole degli oltre 4 mila miliardi di ricchezza finanziaria privata è certamente benvenuta, e indirizza il cronico ritardo italiano nelle diversificazione dei patrimoni a favore degli impieghi in realtà innovative e con prospettive di crescita globale, invece che ripetere il solito peana a difesa delle microimprese marginali, che pure ha finora informato le intenzioni e le scelte della coalizione gialloverde. Ma le diverse correnti di pensiero che emergono all’interno dell’esecutivo populista meritano un approfondimento, perché in tutta evidenza Tria e Di Maio hanno idee alquanto diverse su come trattare i “talenti” finanziari affidati dal popolo risparmiatore alla filiera dell’asset management, in particolare per quanto riguarda le tipologie di investimento “early stage”, ovvero gli investimenti in realtà innovative ad alto potenziale di crescita e insieme ad alto rischio.
Le startup innovative finanziate dallo stato sono come Cristoforo Colombo. Partono senza sapere dove vanno. Arrivano senza sapere dove sono. E comunque lo fanno con i soldi degli altri. Nel Fondo nazionale innovazione, per far veleggiare l’ecosistema italiano dell’imprenditorialità tecnologica oltre le colonne d’Ercole della recessione e della marginalità, il ruolo di Isabella e Ferdinando verrà svolto da Luigi Di Maio e dalla Cassa depositi e prestiti. Il vicepremier nonché ministro per lo Sviluppo economico è la mente – e la Cdp sarà il braccio – della più grande operazione finanziaria mai pensata in Italia a sostegno delle startup tecnologiche: il governo promette di mobilitare 1 miliardo di euro al servizio di investimenti in venture capital, in un paese che è tuttora agli ultimi posti in Europa per la quota di capitale dedicato all’innovazione “early stage”. La percentuale di investimenti in venture capital rispetto al pil in Italia è pari allo 0,005 per cento, meno di un quinto rispetto alla media europea, meno di un settimo rispetto a Francia e Spagna. In valore assoluto, un cinquecentesimo di quanto si investe annualmente negli Stati Uniti.
Lo strumento operativo di intervento del Fondo nazionale innovazione sarà il Venture capital (Vc). Cdp dovrà decidere investimenti diretti in startup e Pmi innovative, su tutto il territorio nazionale. E non solo nel capitale iniziale, ma in una gamma estesa del ciclo degli investimenti di sviluppo, da seed a expansion. Se non bastasse questa complessità temporale, che già da sola richiederebbe strumenti di investimento di ben diversa durata e finalità, nel Fni c’è anche un’esplicita attenzione alla funzione di trasferimento tecnologico, obiettivo che spesso finisce per essere in conflitto di interessi rispetto alla massimizzazione del ritorno dell’investimento tramite appropriazione delle rendite da innovazione; Di Maio ha infine già identificato, senza bisogno di invitare al tavolo Confindustria e il mondo delle associazioni d’impresa, i settori strategici per la crescita e competitività del paese nei quali dovrà investire il Fondo: si tratta delle aree cosiddette “Deep Tech”, come Artificial intelligence, Blockchain, New Materials, Space, Fintech, Healthcare. Ma c’è spazio anche per obiettivi industriali politicamente più appetibili: Social Impact, Eco-Industries, AgriTech/Foodtech, Mobility, Design e l’immancabile Made in Italy. Insomma, tutte le “buzzword” dell’high tech e del nuovo capitalismo: quanto basta, nelle intenzioni di Di Maio, per trasformare l’Italia da Cenerentola del mondo del Vc a Principessa dell’Economia della Conoscenza, come enfaticamente recita la presentazione del suo ministero.
Ma è davvero sufficiente un fondo, per quanto di importo non trascurabile in un contesto arretrato come il nostro, per fare dell’Italia una “smart nation”, il tutto partendo entro maggio? Purtroppo no.
Le best practice europee raccomandano di evitare lo spiazzamento delle iniziative private, indirizzando i fondi pubblici a svolgere un importante ruolo di co-investitore indiretto in fondi di Venture capital che abbiano le caratteristiche organizzative adatte. Investire in start-up richiede competenze molto specifiche, impegna in lunghi processi di valutazione e negoziazione, sia per la sottoscrizione del capitale iniziale, sia per le iniezioni di risorse successive, sia infine per la necessaria exit. Non è una scommessa finanziaria, ma un duro e paziente lavoro di analisi economica delle potenzialità di un progetto industriale e della qualità del team imprenditoriale coinvolto. Molto meglio che Cdp assicuri il suo sostegno al settore privilegiando il ruolo di coinvestitore, tramite fondi di fondi, invece che di operatore diretto sul mercato, con l’immediata conseguenza di distorcere l’allocazione del capitale, esponendola alle immancabile pressioni politiche, fin d’ora previste dal vincolo di investimento su tutto il territorio nazionale, in contrasto alla consolidata logica di concentrazione e di effetti di densità, che ha da sempre caratterizzato gli ecosistemi di start-up vincenti a livello internazionale.
Come per i centri per l’Impiego e i “navigator” al servizio del reddito di cittadinanza, anche in questo caso il Mise pensa di poter sostituire lo stato al mercato, attribuendo a Cdp il ruolo di investitore diretto, senza darle il tempo di mettere a punto le premesse organizzative necessarie per assicurare un’adeguata pipeline di progetti da valutare, nonché di dotarsi delle necessarie risorse di governance per la supervisione e il controllo del portafoglio di investimenti. Le fonti di capitale previste per il Fni, inoltre, rischiano di essere distorsive e di ingolfare un settore che ha bisogno di tempi fisiologici per selezionare l’offerta di progetti competitivi, specie in settori estremamente specializzati come quelli del “Deep Tech”, dove l’Italia ha una forte carenza di personale qualificato.
Per finanziare i progetti diretti e indiretti di Venture Capital il Fni prevede di allocare il 3,5 per cento della raccolta dei Piani Individuali di Risparmio (Pir). Essi tuttavia hanno una durata di cinque anni e non comprendono, nel loro disegno iniziale, un esplicito vincolo di allocazione su questa asset class, che è altamente rischiosa e richiede un orizzonte temporale spesso più lungo di un lustro; sarebbe meno distorsivo e più corretto pensare a strumenti dedicati a questa classe di investimenti, con tagli di sottoscrizioni anche maggiori, da fare sottoscrivere a investitori con adeguata predisposizione al rischio e capacità di assorbimento di eventuali perdite. L’idea di trasformare improvvisamente un popolo di formichine che tengono i soldi sul conto corrente in un grande pool di capitalisti con l’appetito del rischio tipico dell’innovazione tecnologica rischia di suonare del tutto velleitaria, oltre che avere l’effetto di inflazionare nel breve termine un settore ancora troppo piccolo, come avvenuto per le poche Pmi italiane quotate nel 2017. Non meno distorsiva – oltre che irrispettosa dei diritti dei soci di minoranza – è la decisione di allocare il 15 per cento dei dividendi delle aziende partecipate dello stato, già retroattivamente a partire dai bilanci 2018. A conclusione di un progetto che tuttora presenta significative criticità, perché mette il carro della finanza davanti ai buoi dell’ecosistema per l’innovazione, non poteva mancare il proclama di tono vagamente sovranista: per Di Maio i soldi dello stato serviranno “per difendere l’interesse nazionale contrastando la costante cessione e dispersione di talenti, proprietà intellettuale e altri asset strategici che vengono svenduti all’estero con una perdita secca per il sistema paese”. Non si capisce perché attrarre investimenti esteri sia una “perdita secca” per il paese, soprattutto per quanto riguarda le opzioni di exit a disposizione del venture capital che per loro natura devono essere globali, a meno che il governo non intenda imporre una sorta di “protezionismo dell’innovazione”, imponendo un vincolo nazionalista: prima i capitali italiani.
Il risparmio è patrimonio delle famiglie, non risorsa fiscale del governo. Evitare che venga nascosto sotto terra, come narrato nella parabola evangelica dei talenti, richiede il giusto mix di educazione e servizi finanziari competitivi e trasparenti. Allo stesso modo, esso va indirizzato semmai tramite incentivi alla corretta diversificazione e durata temporale, e non certo tramite allocazione forzosa, men che meno di stampo nazionalista.