Dazi, Brexit, Italia. Storia della prima crisi economica creata dalla politica
Il peggioramento dell’economia mondiale non è un fenomeno ciclico che crea conseguenze a livello politico ma nasce da un peggioramento dei fondamentali della politica. Perché il cambiamento sovranista significa sfiducia. La lezione inglese
Allontaniamoci per un attimo dai numeri, dalle previsioni, dagli scenari, da tutti i dati apocalittici che ogni giorno certificano come l’anno bellissimo promesso dal premier Giuseppe Conte sarà in realtà un anno che di bellissimo non avrà nulla, e proviamo ad allargare la nostra inquadratura osservando da un’angolazione diversa la traiettoria dell’economia italiana e forse anche europea. I pigri avversari dei sovranisti italiani vi diranno che l’Europa sta rallentando a causa di Salvini e Di Maio. I pigri difensori dei sovranisti italiani vi diranno che l’Europa sta rallentando a prescindere da Salvini e Di Maio. I pigri osservatori della politica vi diranno che l’economia europea sta rallentando a causa di un fenomeno che non ha caratteristiche diverse dall’essere ciclico. Ma ciò che in pochi avranno invece il coraggio di riconoscere è che il rallentamento che sta registrando l’economica globale ha delle caratteristiche uniche che meriterebbero di essere studiate per capire in che misura la minaccia più grande al benessere globale oggi non arriva da fenomeni legati alla congiuntura: arriva da fenomeni legati alla politica, e in particolare al cialtronismo populista. Pochi giorni fa, a New York, il direttore generale del Fondo monetario internazionale, Christine Lagarde, è intervenuta alla Us Chamber of Commerce, la confindustria americana, per fare il punto sullo stato di salute dell’economia mondiale.
Per qualche tempo, il capro espiatorio sarà il ministro dell’Economia Giovanni Tria, che verrà visto come colui che non ha reso possibile la rivoluzione del cambiamento populista. Ma l’Italia che non cresce, non crea lavoro, crea debito, sfiducia e deprime i consumi, non è l’effetto di ciò che questo governo non ha fatto. È solo l’effetto del cambiamento che il populismo può imprimere all’economia di un paese: semplicemente, farlo passare dal segno più al segno meno
Lagarde ha detto di “non prevedere alcuna recessione nel breve termine” (cosa che invece in Italia è già capitata: unico caso tra i paesi dell’Ocse e del G7). Ha segnalato che da gennaio l’economia globale ha ulteriormente perso slancio (cosa che in Italia è iniziata a capitare già a partire dagli ultimi due trimestri del 2018). Ha ricordato che oltre il settanta per cento dell’economia mondiale si trova in una fase di rallentamento (solo due anni fa il 75 per cento registrava una crescita). Ha riconosciuto che la ripresa “è vulnerabile” e che l’atteso rimbalzo dell’economia tra la seconda metà del 2019 e la prima metà del 2020 è ancora del tutto “incerto”. E ha poi affermato una verità, così sintetizzata dalle agenzie, che meriterebbe di essere scolpita sul marmo: a pesare sull’economia globale ci sono prima di tutto tre fattori che riguardano l’incertezza sulla Brexit, l’innalzamento dei tassi di interesse nei paesi ad alto debito e le tensioni commerciali.
Le parole usate da Lagarde, che sono le stesse che da tempo utilizza il presidente della Bce Mario Draghi e sono le stesse che martedì scorso ha usato nel corso di un’iniziativa pubblica l’ex presidente della Federal Reserve Janet Yellen, ci ricordano la caratteristica più spaventosa e anche più affascinante della fase economica che stanno vivendo i paesi più sviluppati del mondo, una caratteristica unica e mai riscontrata nella nostra storia recente: per la prima volta il peggioramento dell’economia mondiale non è un fenomeno ciclico che crea conseguenze a livello politico, ma è un fenomeno non ciclico che nasce da un peggioramento dei fondamentali della politica, non dell’economia.
L’incertezza sulla Brexit, l’innalzamento dei tassi di interesse nei paesi ad alto debito come l’Italia e le tensioni commerciali generate dalle guerre sui dazi fortissimamente volute dall’America di Donald Trump sono come tre spilli che ogni giorno pressano il palloncino della crescita mondiale e che ci ricordano che i populismi che tengono in ostaggio paesi meno solidi dell’America non sono parte della soluzione della crisi economica ma sono parte del problema. Su un’economia forte come quella americana gli effetti negativi delle politiche antisistema potrebbero arrivare in modo non repentino, ma su economie più piccole come lo sono quelle dell’Italia e della Gran Bretagna gli effetti dell’instabilità, dell’inaffidabilità, del sovranismo, del nazionalismo, dell’uscire fuori da uno schema multilaterale senza averne uno alternativo di riserva si vedono già oggi e non si vedono solo dai dati sulla crescita: si vedono anche dagli indici di fiducia relativi al futuro dei rispettivi paesi. A marzo, un’indagine realizzata da BofA Merrill Lynch relativa alla fiducia dei gestori di fondi nei confronti del mercato azionario europeo ha segnalato che secondo i principali operatori specializzati in asset management i paesi da evitare nei prossimi dodici mesi sono due: Italia e Gran Bretagna. In Gran Bretagna, nonostante le incertezze sulla Brexit, è solo il 20 per cento dei gestori che considera pericoloso investire nel paese mentre i gestori intenzionati a vendere le azioni che hanno in Italia arrivano alla quota choc del 53 per cento, rendendo evidente un altro lato non sufficientemente raccontato della schizofrenia del nostro paese: essere diventato un paese inaffidabile proprio nel momento in cui in Europa c’è un grande paese da cui sono pronti a fuggire via una moltitudine di investitori (secondo un report elaborato dal think tank New Financial diffuso dai principali giornali inglesi un mese fa, più di 275 imprese hanno spostato o stanno spostando parte del proprio business, del proprio personale, dei propri beni lontano dal Regno Unito, per un valore complessivo di 4 miliardi di dollari, il dieci per cento delle attività bancarie del paese, per un valore complessivo di 800 miliardi di sterline, è stato spostato dalla Gran Bretagna, e tra le città che hanno beneficiato delle ricollocazioni c’è Dublino a quota cento, c’è il Lussemburgo a quota sessanta, c’è Parigi a quota 41, c’è Francoforte a quota 40, c’è Amsterdam a quota 32, e come avrete notato all’elenco mancano alcune città di un certo paese).
Il populismo è insomma diventato un pericolo per l’economia globale, impedisce ai paesi che potrebbero sfruttare i guai delle altre nazioni dominate dal populismo di approfittare delle situazioni vantaggiose e per non ammettere il fallimento del proprio modello di governo e della propria ideologia ha naturalmente bisogno di offrire all’elettore un qualche capro espiatorio. In Italia, per qualche tempo, il capro espiatorio sarà il ministro dell’Economia Giovanni Tria, che verrà progressivamente trasformato da Lega e Movimento 5 stelle come colui che non ha reso possibile la rivoluzione del cambiamento populista. Se non fosse che il vero problema relativo alla traiettoria del nostro amico Tria non è stato quello di aver fatto di tutto per temperare le follie populiste ma è stato quello di aver fatto di tutto per facilitare le pazzie del cambiamento. E l’Italia che oggi non cresce, non crea lavoro, crea debito, crea deficit, crea sfiducia, deprime i consumi, non è l’effetto di ciò che questo governo non ha fatto ma è l’effetto del cambiamento che il populismo può imprimere all’economia di un paese: semplicemente, farlo passare dal segno più al segno meno.