Prove di austerity
I due miliardi accantonati dai ministeri restano congelati. Altro che spending review: “È un vicolo cieco”, dice Padoan
Roma. Quando gli si chiede se si tratti delle prove generali dell’austerity, Claudio Durigon fa oscillare il palmo della mano in aria. Come a dire: “Più o meno”. “Diciamo che in via prudenziale – spiega poi il sottosegretario leghista al Lavoro – preferiamo tenere fermi quei due miliardi, in attesa di capire come va l’economia”. E insomma Durigon riconosce una verità che Laura Castelli, attraversando il Transatlantico, prova quantomeno a ridimensionare.
“Non sono tagli”, risponde, liquidatoria, la viceministro grillina dell’Economia. E in effetti, nella sua pignoleria lessicale, non è detto che abbia torto, la Castelli, dacché tecnicamente si tratta di “dotazioni accantonate e rese indisponibili”: soldi che insomma, come stabilito nella legge di Bilancio del dicembre scorso, ciascun ministero metteva da parte, rinunciando a spenderli finché le previsioni economiche non si fossero chiarite. Poi, però, la viceministro prosegue: “Avevamo disposto di congelare quei fondi fino a novembre, come faremo”. E qui a ben vedere no, non è così: perché nella legge di Bilancio si prevede di rendere “disponibili” quei due miliardi con una semplice delibera del Consiglio dei ministri “qualora dal monitoraggio di luglio gli andamenti tendenziali dei conti pubblici” fossero risultati “coerenti con il raggiungimento degli obiettivi programmatici per l’esercizio 2019”. Insomma, se le cose fossero andate bene, se quell’irrealistico uno per cento di crescita si fosse rivelato meno improbabile, i ministeri avrebbero potuto spendere i loro fondi bloccati. E invece ieri, nel giorno in cui lo stesso governo ha certificato che il pil crescerà al massimo dello 0,2 per cento, dalle bozze del Def discusse poi a Palazzo Chigi si è capito che così non sarà. Prendendo atto, infatti, “della revisione al rialzo della stima di indebitamento netto per l’anno in corso”, l’esecutivo grilloleghista ammette che “intende attuare la clausola contenuta nella legge di Bilancio 2019, in base alla quale due miliardi di euro di spesa delle amministrazioni centrali resteranno congelati nella seconda metà dell’anno”.
“E non ci dicano che è spending review”, mette le mani avanti Francesco Boccia, del Pd. “Questa è una misura di austerity bella e buona”. Del resto la parola rivelatrice, di forneriana memoria, l’aveva già usata lunedì scorso, sul Corriere, il ministro dell’Agricoltura Gian Marco Centinaio, evocando la necessità dei “sacrifici”. E in effetti, in quei due miliardi congelati non ci sono sprechi da tagliare: ci sono 150 milioni per la competitività delle imprese e altri 40 per finanziare politiche sociali in capo al Mise di Luigi Di Maio, ci sono 300 milioni per il trasporto locale che Danilo Toninelli non potrà spendere, ci sono 70 milioni destinati all’Università e 30 a ricerca e innovazione a cui Marco Bussetti dovrà rinunciare. “Sono tagli che fanno male, che incidono nella carne viva dei cittadini”, osserva Stefano Fassina, che pure ha più volte fiancheggiato le politiche economiche gialloverdi. Congelati, poi, pure 150 milioni destinati alle Forze armate. “Diciamo che è una austerity mascherata, una austerity del cambiamento”, ride, amaro, Adolfo Urso. “Il paradosso – prosegue il senatore di FdI – è che di fatto tagliano questi due miliardi che, se spesi bene, potrebbero dare una buona spinta al pil, e poi si arrovellano per approvare un decreto ‘crescita’ e uno ‘sblocca cantieri’ che, messi insieme, lo stesso governo stima che daranno al massimo un più 0,1 di pil. Che senso ha?”. Manlio Di Stefano, quando si sente porre questa domanda, si stringe nelle spalle: “Il nostro ministero non dovrebbe essere coinvolto”, dice, trascurando però che anche la Farnesina dovrà fare a meno di 40 milioni stanziati per la cooperazione allo sviluppo (il famoso “Aiutiamoli a casa loro”).
“Si aggrappano a questi espedienti del congelamento della spesa per evitare di dovere dire chiaramente che le loro buone intenzioni sono scritte sull’acqua”, commenta Pier Carlo Padoan davanti a un caffè alla buvette. “Si sono messi da soli – prosegue l’ex ministero dell’Economia – in un vicolo senza uscita: se ora optano per dei tagli alla spese, queste misure recessive pro cicliche sarebbero letali per un’economia già in sofferenza”. E se invece azzardassero una nuova manovra espansiva? “A quel punto – scuote la testa Padoan – sarebbero i mercati a non ritenerla credibile, e le rinnovate incertezze sul debito farebbero ripartire lo spread”.