Eni oltre la Libia. Così droni e controllo remoto dei pozzi cambiano l'industria petrolifera
Nuove tecnologie riducono la necessità di input umani per il controllo e la gestione dei giacimenti
Roma. Eni non ha abbandonato la Libia. Nonostante l’aggravarsi della situazione a Tripoli un portavoce della società spiega al Foglio che “la situazione nei campi è sotto controllo e stiamo monitorando l’evolversi della situazione con molta attenzione”. Per la società italiana, presente nel Paese dal 1959, le attività vanno avanti condotte principalmente nell’offshore mediterraneo di fronte a Tripoli e nel deserto libico per una superficie complessiva di oltre 24mila chilometri quadrati.
Non è un mistero che l’economia libica dipenda principalmente dal petrolio, che rappresenta oltre l’85 per cento del suo prodotto interno lordo, così come la quasi totalità delle sue esportazioni. Non solo: è in Libia che si trovano le più vaste riserve petrolifere del continente africano. E “questo scatolone di sabbia” come lo definì l’economista Gaetano Salvemini, pesa sui conti dell’Eni. Su una produzione annua di 2 milioni di barili, oltre 300 mila provengono proprio da quest’area che pesa per oltre il 15 per cento nella produzione totale del colosso energetico. Attività che sono regolate da contratti di Exploration and Production Sharing (Epsa) che hanno durata fino al 2042 per le produzioni a olio e al 2047 per quelle a gas. Tutti i campi off-shore – protetti dalla Marina Militare – sono attivi, e anche quelli sul territorio, ad esempio sul campo Elephant, dapprima chiuso e poi riaperto, vanno avanti.
Gli impianti sono gestiti e protetti da personale locale in coordinamento con quello italiano. E laddove non arriva l’uomo vi è la possibilità di monitorare la situazione con le nuove tecnologie, l’utilizzo di droni e robot che forniscono alla casa madre un quadro completo della situazione dei pozzi petroliferi. Eni è all’avanguardia di questa trasformazione grazie al suo nuovo super computer HPC4, il più potente computer industriale al mondo, che consente tecniche di esplorazione più raffinate grazie alle analisi di prossima generazione. Ma ci sono anche nuove tecniche per la semplificazione del processo di perforazione dei giacimenti. La più promettente di queste tecnologie è la “perforazione automatica” che vede l’utilizzo di diversi macchinari per eseguire le attività di drilling tecniche che comprendono la sostituzione dei tradizionali piani sonda idraulici con robot smart e l’utilizzo di sensori interni — che possono misurare parametri come la pressione di flusso — in comunicazione con gli strumenti di perforazione per modificare automaticamente il percorso del pozzo.
Qual è il vantaggio? Questo modello può ridurre la necessità di input umani, in tal modo aumentando la sicurezza e abbattendo in maniera significativa i costi fino al 50 per cento, oltre a dare maggiore sicurezza nei territori difficili o dove sono in atto conflitti come in Libia. Una tecnologia destinata a crescere nei prossimi anni: la società di ricerca dei campi petroliferi Kimberlite ha stimato che circa il 40 per cento dei pozzi perforati fino al 2022 utilizzeranno proprio questa tecnica. Oltre a svolgere un ruolo nella perforazione automatica, la tecnologia robotica può essere impiegata anche per identificare le perdite indesiderate nel corso di produzione e trasporto. Nel caso dei pozzi offshore, ad esempio, macchine sottomarine automatiche di ispezione, dotate di strumenti come sonar, telecamere e altri sensori, possono individuare le perdite di petrolio o gas naturale rispetto all’approccio tradizionale con sottomarini controllati dall’uomo. Sulla terraferma, droni automatici – vengono chiamati “annusa metano” - vengono utilizzati per individuare le perdite da pozzi. Sono tecnologie che arrivano soprattutto da grandi colossi come Smp che ha sede a Skolkovo nella silicon valley russa o le americane Schlumberger e Baker Hughes.
L’Italia nel campo dell’ingegneria ha poche realtà, una goccia nel mare, se consideriamo che nella Top 100 delle società di ingegneria internazionali, su un fatturato complessivo di 96 miliardi, 42 provengono dall'Europa, mentre nostro contributo si aggira su poco più di 1 miliardo di euro. Stanno sviluppandosi nuove start up interessanti come la sarda Dedalo Drone, associato Oice, che realizza modelli digitali ottenuti con software bim (building information modeling). “Certamente con i droni si possono controllare in remoto le attività dei giacimenti petroliferi – spiega al Foglio l’amministratore delegato, l’ingegner Mauro Paolini – è una tecnica innovativa, attraverso delle telecamere fisse e mobili si può avere una visuale flessibile di quello che succede, con la ricostruzione del modello in 3D ed avere un database aggiornato del tuo bene. Però per fare interventi di vera e propria manutenzione ci vuole necessariamente ancora la forza fisica dell’uomo”.