Dove nasce l'idea di Tria sull'Iva
Ridurre le tasse sui redditi e aumentarle sui consumi. La proposta lanciata dal ministro sul Foglio. Nel 2007
Ci piacerebbe che la bellezza fosse l’essenza delle tasse, come sostiene Tommaso Padoa-Schioppa (“le tasse sono una cosa bellissima”). Sarebbe bello perché potremmo starcene tutti zitti, compreso il ministro dell’Economia, lasciando filosofi e stilisti a discutere su come pagarle. Ovviamente, l’essenza delle tasse è un’altra. Gli stessi parametri quantitativi che contano – ammontare, composizione e incidenza della tasse – devono essere interpretati per afferrare questa essenza. E analizzati alla luce dell’uso che si fa delle tasse, il quale consiste nella spesa pubblica.
L’uso delle tasse. Al netto degli investimenti e degli interessi sul debito, la spesa delle amministrazioni pubbliche assorbe circa il 40 per cento del prodotto interno. Un livello raggiunto nel 2005 e mantenuto in quelli successivi compreso il prossimo, a stare alla nuova legge finanziaria predisposta dal governo Prodi. Un livello comparabile con quello di altri paesi europei simili al nostro. Il problema connesso all’uso che si fa in Italia del gettito delle tasse non è perciò la dimensione della spesa pubblica, ma la sua efficienza e la sua coerenza con i fini programmatici.
L’ammontare delle tasse. Ugualmente, l’ammontare delle tasse, o meglio la pressione fiscale, ossia il volume di imposte e contributi in rapporto al reddito dei cittadini, non è di per sé eccezionale. Nel 2006 l’insieme delle tasse assorbiva il 42,3 per cento del reddito degli italiani, poco più di mezzo punto percentuale sopra la media dei paesi dell’euro e 1,3 punti in più della
In Italia l’evasione e l’elusione delle imposte sono tali che persone con redditi fiscalmente irrisori alimentano consumi sfarzosi
media dell’Unione europea (ma se dal calcolo si escludono gli outlier, ossia i due paesi con la pressione più alta e i due con quella più bassa, il divario raggiunge quasi 5 punti). Ci sono paesi con livelli inferiori di pressione fiscale, come l’Irlanda (33,5) e il Regno Unito (38,2), e altri con livelli superiori, come la Danimarca (49,5) e la Svezia (50,2). Certo, in Italia la pressione fiscale è cresciuta ancora nel 2007 (in meno di due anni di governo il centrosinistra l’ha aumentata di due punti e mezzo) e nel 2008 non diminuirà. Ma questo non basta a spiegare perché sia ormai largamente condivisa l’opinione che tale pressione sia eccessiva. Il punto è che il carico fiscale non è distribuito in modo equilibrato. E’ qui che la composizione e l’incidenza del prelievo tributario divengono rilevanti.
La composizione delle tasse. Le tasse non sono uguali tra loro e negli effetti che producono. In Italia, come in altri paesi dell’Europa continentale, il prelievo fiscale è squilibrato a favore di quello diretto sui redditi rispetto alla tassazione indiretta che agisce sulla spesa dei consumatori. Tale squilibrio non ha a che fare con qualche principio di scienza delle finanze. E’ la conseguenza di un vecchio pregiudizio ideologico che identifica la progressività del prelievo con la tassazione dei redditi delle persone e non dei loro consumi. Nella realtà le cose non stanno così, come dimostra proprio l’esperienza dell’Italia, un paese in cui l’evasione e l’elusione delle tasse sono tali che persone con redditi fiscalmente irrisori alimentano consumi sfarzosi. Ma ciò che conta è che sono le imposte dirette, che colpiscono il reddito personale guadagnato con il lavoro e l’impiego del risparmio, a influenzare attraverso il sistema degli incentivi individuali l’offerta di lavoro e l’accumulazione di capitale. Ossia i fattori di fondo da cui dipende la crescita economica [...].
Il taglio delle tasse. Chi scrive ha più volte espresso l’opinione che la pressione fiscale vada ridotta drasticamente in Italia e che, per evitare contraccolpi sul bilancio dello stato, questo obiettivo vada assunto come il “vincolo” rispetto al quale adattare la spesa e non il contrario. Detto con uno slogan “la bestia va affamata”. Tuttavia la questione della pressione fiscale complessiva e quella della sua composizione non sono indipendenti. Perciò porre il problema dell’eccessivo prelievo fiscale sui redditi da lavoro significa affrontare nel modo più appropriato non solo la “questione salariale” ma anche il problema della bassa crescita che affligge l’economia italiana. In questo modo si riesce anche a depurare queste questioni dalla tripla retorica della concertazione, del declino e del rigore.
Poiché l’incentivo al lavoro e all’intrapresa economica sono il cuore del problema ciò che serve è una riduzione energica e concentrata nel tempo delle aliquote sui redditi da lavoro. Su tutti i redditi da lavoro, dipendente e autonomo. Si noti che per questa via, e sin tanto che l’obiettivo delle negoziazioni salariali è la retribuzione netta e non quella al lordo delle tasse, si ha anche un vantaggio per le imprese perché la riduzione del carico fiscale tende a frenare la dinamica del costo del lavoro. Inoltre, poiché l’evasione/elusione fiscale, che per i redditi da lavoro autonomo è più facile e quindi più praticata, diverrebbe meno conveniente (e anche ancor meno giustificabile) sarebbe più facile perseguirla con maggiore severità (a legislazione invariata o con appositi inasprimenti delle norme vigenti).
Gli effetti sulle entrate fiscali. L’obiezione è che queste belle idee sono teoria e non possono essere messe in pratica nelle condizioni del bilancio pubblico del nostro paese e di fronte a una spesa pubblica non comprimibile nel breve periodo. Ma le cose non stanno in questi termini. Intanto, la spesa pubblica, sebbene non sia (facilmente) comprimibile in valore assoluto, perché è molto difficile tagliare specifiche spese a cui sono collegati interessi di corporazioni più o meno potenti, può essere almeno frenata nella sua crescita. Ad esempio vincolandone la dinamica al tasso d’inflazione atteso in modo da mantenerla invariata in termini reali (salvo nei casi di incrementi di efficienza effettivi). La recentissima esperienza americana dimostra come questo sia possibile persino in situazioni in cui certe spese, come quelle per la sicurezza nazionale, sono sottoposte a una pressione straordinaria. [...] Ci sono gli esempi del Belgio e dell’Irlanda e della stessa Germania, paesi nei quali sono stati effettuati dei tagli delle imposte sul reddito (ma non della pressione fiscale complessiva). Poi ci sono degli studi, come quello di Bertil Holmlund e Martin Soederstroem dell’Università di Uppsala (“Estimating income responses to tax changes: A dynamic panel data approach”, September 2007) . In Svezia è in vigore dagli anni 90 un sistema di tassazione del reddito personale del tipo dual income tax, ossia il reddito da lavoro e quello da capitale sono tassati secondo due schemi separati. A sua volta il reddito da lavoro è gravato da due livelli di tassazione, uno locale e l’altro nazionale. Due dei maggiori sindacati svedesi hanno chiesto una riforma di questo sistema. Holmlund e Soederstroem hanno simulato le conseguenze fiscali della riforma proposta (riduzione di 5 punti percentuali dell’aliquota massima dell’imposta statale sui redditi da lavoro). Ebbene, il risultato è che le entrate non diminuiscono e anzi è possibile un surplus fiscale.
La proposta. Se tutto questo non fosse convincente e, in mancanza di analisi quantitative applicate all’Italia, ammettiamo che l’evidenza considerata possa non essere sufficiente, avanziamo una proposta. Usare la ricomposizione del prelievo fiscale, che come abbiamo visto è distorto verso i redditi da lavoro e le imposte dirette, per rendere sostenibile il taglio della tassazione del reddito personale che riteniamo necessario per la crescita e l’equità. Per essere efficace la riduzione deve essere la più ampia possibile e la meno scaglionata possibile. Poiché anche in questo caso gli effetti macroeconomici si diluiscono nel tempo è possibile che l’impatto immediato sulle entrate tributarie preceda quello sulla crescita e determini un aumento transitorio del disavanzo. Per evitarlo si ricorre a un incremento della tassazione indiretta. In pratica, noi proponiamo di finanziare integralmente o parzialmente – a seconda che si voglia ottenere una pressione fiscale complessiva ex-ante invariata o decrescente – il taglio delle aliquote Irpef attraverso un aumento temporaneo della tassazione sui consumi finali.
Riequilibrando così il prelievo fiscale ci si avvicina alla nozione di Luigi Einaudi: il vero reddito (tassabile) è̀ quello consumato
A sostegno di una tale proposta adduciamo le seguenti argomentazioni. In primo luogo, i rischi inflazionistici connessi con un aumento dell’imposte indirette sono nelle condizioni attuali molto minori che nei decenni passati. I vincoli di domanda incidono molto di più che nel passato sulla fissazione dei prezzi ed è meno probabile la possibilità che la maggiore imposizione indiretta si trasferisca sui prezzi in un contesto di concorrenza crescente. In secondo luogo, il prelievo sui consumi finali colpisce in ugual misura le produzioni italiane e quelle importate a differenza dell’imposizione sui redditi da lavoro che incide sul costo del lavoro interno. In terzo luogo, gli effetti ridistributivi dell’aumento del prelievo indiretto, che potrebbero danneggiare le famiglie più povere, possono essere facilmente compensati adottando un sistema di tassazione negativa per i redditi più bassi. In tal modo, anche per tali classi di reddito sarebbe efficace la riduzione dell’imposta personale (della quale altrimenti non beneficerebbero) e vi sarebbe una compensazione per l’eventuale aumento dei prezzi di alcuni beni finali causato dall’aumento delle imposte indirette. Del resto la “vera” redistribuzione del reddito verificatasi in Italia nel decennio in corso è avvenuta tra chi è stato in grado di “fare” il prezzo e chi non lo è stato (e questo prova quanto importanti siano le liberalizzazioni che aprono i mercati ed erodo- no le rendite corporative). Infine, riequilibrando il prelievo fiscale nel modo che si è detto, ossia aumentando il peso relativo dell’imposizione indiretta, ci si avvicina all’unica nozione di reddito tassabile che Luigi Einaudi riteneva concettualmente consistente. Ragionando dei “Miti e paradossi della giustizia tributaria” (1938), Einaudi sosteneva infatti che il “vero reddito” è solo quello consumato e che, invece, tassandolo tutto si sottopone il risparmio a doppia imposta.
*Questo articolo è stato pubblicato nel Foglio del 17 ottobre 2007