Le tasse sono il vero tema della campagna elettorale, ma la semplificazione leghista non basta
L’origine (storica) dell’equazione sinistra uguale più tasse, il costosissimo sistema di welfare finanziato indebitandoci e la regola ovvia del “rasoio di Occam”
La questione delle tasse ha fatto il suo ingresso con prepotenza nella campagna elettorale. Nessuna sorpresa, visto che milioni di italiani votano con il portafoglio in mano e che il nostro fisco resta vorace, sclerotizzato e inefficiente, severo con i deboli e mite con i forti. L’iniziativa l’ha presa Matteo Salvini rilanciando la flat tax per i lavoratori dipendenti. In fondo, è l’unica proposta di politica economica che unisce le due anime del centrodestra, quella sovranista e antieuropeista della Lega e quella liberale e popolare di Forza Italia. L’idea è che la riforma “si ripaga da sola”, perché riducendo le tasse si “rimette in moto l’economia”. Si tratta di una storia troppo bella per essere vera.
Infatti, le evidenze empiriche ne raccontano un’altra: le riduzioni di tasse in deficit producono deficit, buchi di bilancio che prima o poi vanno coperti con tagli della spesa o con altre tasse. Di segno diverso è la flat tax elaborata non molto tempo fa dall’Istituto Bruno Leoni, che prevede un’aliquota unica del 25 per cento per le principali imposte (Irpef, Ires, Iva), l’abolizione di Irap e Imu, una profonda revisione della spesa pubblica. Ma, come ha spiegato Nicola Rossi, l’estensore della proposta, prima si taglia la spesa e poi si tagliano le tasse. Condizione che la rende incompatibile con i moltiplicatori magici di Salvini e Berlusconi.
La riforma del think tank liberale prevede anche l’introduzione di un “minimo vitale”, ossia un trasferimento monetario diretto ai più poveri in sostituzione dell’odierno (e caotico) sistema di prestazioni assistenziali. Si tratta, quindi, di una riforma fiscale e del welfare che include temi vicini al centrodestra, come la riduzione della pressione fiscale, ma anche cari al centrosinistra, come la lotta alla povertà. Uno dei primi economisti a proporre l’accoppiata flat tax e minimo vitale è stato negli anni Settanta il Nobel per l’economia Milton Friedman, esponente di spicco della scuola di Chicago, ma ha avuto tra i suoi sostenitori anche esponenti dell’intellettualità progressista come Tony Atkinson, eminente studioso del problema delle diseguaglianze (scomparso recentemente).
Per i suoi sostenitori, la flat tax ha due caratteristiche fondamentali: semplifica enormemente il sistema fiscale e ne limita la progressività. La semplificazione è ovviamente un grande vantaggio, di fronte a sistema fiscale come quello italiano, zeppo di una miriade di tributi, agevolazioni, deduzioni, detrazioni. I limiti che impone alla sua progressività sono invece molto consistenti. La progressività delle imposte, dettato costituzionale a parte, è infatti considerato dalla sinistra un tratto distintivo della cittadinanza democratica. Nel suo sistema di valori, tende a fornire un’assicurazione sociale nel breve periodo e una protezione delle fasce più deboli nel medio-lungo periodo. Per i “più cinici”, si potrebbe aggiungere, è anche necessaria alla pace sociale.
È pertanto difficile che il Pd possa rinunciarvi senza pagare un altissimo prezzo tra i suoi elettori (Romano Prodi ha detto che, se lo facesse, “perderebbe l’anima”). Del resto, storicamente l’idea-forza della sinistra nel campo fiscale è stata la concentrazione del prelievo su un’unica imposta sul reddito, personale e progressiva. Dei due criteri aristotelici assunti da Adam Smith come cardini dell’ordinamento tributario – il principio commutativo (equivalenza tra valore dell’imposta e servizio pubblico) e il principio distributivo (equivalenza tra imposta e capacità contributiva) – la sinistra ha sempre puntato sul secondo.
Negli ultimi decenni, però, questa idea-forza è entrata progressivamente in crisi. A questa crisi, segnalata già a metà degli anni Ottanta da economisti come Antonio Pedone e Giorgio Fuà, hanno contribuito prima l’inflazione, con il suo cieco automatismo di drenaggio fiscale, poi la crescente complessità della società di massa. Elusa o evasa da gruppi corporativi e dai ceti della rendita, la sua equità ne è risultata gravemente compromessa. Si può dire che qui sta il male: nel non aver resistito a queste pressioni. Ma si deve anche riconoscere che tali pressioni divengono obiettivamente irresistibili quando si pretende di caricare tutto il peso dell’imposta su un solo indice di capacità contributiva, con una scala di progressività che induce in tentazione anche i più virtuosi e che determina fatalmente una resistenza accanita allo Stato esattore sul terreno politico.
È in questo contesto che è esploso il fenomeno leghista alle elezioni amministrative del 1990. Umberto Bossi riuscì a interpretare sapientemente la protesta dei ceti medi del Nord contro il sistema fiscale e la torsione assistenzialistica del welfare domestico, in cui era sempre più evidente lo scarto tra risorse prelevate e benefici erogati. Il sipario sulla prima stagione repubblicana cala con questa pesante eredità. Nel passaggio di secolo la crisi dell’imposta personale e progressiva non ha scosso, tuttavia, la fiducia granitica della sinistra nell’articolo 53 della Costituzione (“Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”). Si è aperta, è vero, una riflessione sulle sue contraddizioni e, in alcuni ambienti accademici, sono state formulate proposte di riforma radicale, ma che non sono mai riuscite a varcare la soglia della provocazione intellettuale.
Penso, in particolare, a quella che si è ispirata alle teorie di economisti come Nicholas Kaldor e James E. Meade: la trasformazione dell’imposta personale sul reddito in una imposta personale sulla spesa. Il suo fondamento concettuale risale a Thomas Hobbes: è più giusto che un cittadino sia tassato per ciò che preleva dal “fondo comune”, che per ciò che vi apporta. Se la sinistra è stata identificata con il “partito delle tasse” una ragione c’è. Come ha scritto Paolo Pombeni, l’incremento del prelievo fiscale è in buona parte avvenuto fra fine Ottocento ed inizi Novecento per finanziare lo sviluppo dello Stato assistenziale. In Gran Bretagna, i conservatori che lo avversavano ne imputavano la responsabilità all’allargamento del suffragio, che aveva portato in Parlamento i rappresentanti delle classi popolari. Lasciare ai liberali le decisioni sulla spesa sociale – si disse allora – era “come nominare il gatto guardiano della ciotola del latte”.
L’origine dell’equazione sinistra eguale più tasse è qui. La sinistra vuole più Stato sociale. Più stato sociale significa più tasse. Una parte non piccola della sinistra ha introiettato questo atteggiamento, e dunque ritiene che abbassare le tasse significhi semplicemente tagliare lo Stato sociale tout court. Agli inizi degli anni Cinquanta Thomas Marshall poteva sostenere che nel welfare state in via di costruzione era implicita una tensione verso l’eguaglianza. Alla prova dei fatti, questo pronostico si è rivelato un abbaglio. Basti pensare all’incapacità, anche nelle versioni più interventiste dello Stato sociale, delle forme più dure e mortificanti di povertà. Come all’incapacità di estirpare le radici maschiliste dell’apparato dei diritti di cittadinanza. Si pensi, inoltre, al fenomeno della formazione di una vera e propria “underclass” nei Paesi industrializzati: uno strato di soggetti emarginati non solo in termini economici, ma etnici.
L’esperienza storica del welfare, in altri termini, porta ad affermare una tesi esattamente opposta a quella del grande sociologo inglese, che solo i moralisti accademici della sinistra possono ignorare, e cioè che libertà ed eguaglianza possono entrare in conflitto tra loro. Possiamo anche tuonare contro gli speculatori, contro una finanza senza regole, contro i superbonus dei manager e contro un capitalismo rapace. Senza dimenticare però un dato incontrovertibile, occultato nelle pieghe di un debito pubblico abnorme. E cioè che le protezioni sociali dipendono, in misura che non ha confronto con i diritti civili e politici, dalle risorse create dal mercato. Sfidati dai cambiamenti demografici, della famiglia e del lavoro, i sistemi di welfare sono sulla graticola dei governi da quando non è stato più possibile pagarli aumentando le tasse. Sono stati finanziati indebitandosi. E il debito occorre restituirlo. Se le cose stanno così, non basta l’appello alla lealtà e al senso civico dei contribuenti. Non bastano i “patti fiscali” tra Stato e cittadini, le procedure telematiche, la tracciabilità della moneta, una decisa semplificazione normativa. Tutti provvedimenti importanti, sia chiaro. Occorre che la spesa pubblica corrisponda davvero a un ragionevole costo dello Stato sociale. Magari promuovendo modelli di welfare locale non gestiti da mastodontici apparati burocratici.
Frusta fit per plura quod potest fieri per pauciora. È inutile fare con più ciò che si può fare con meno, è la formula di cui il filosofo e frate francescano trecentesco Guglielmo di Ockham si servì per eliminare molte delle entità ammesse dalla Scolastica tradizionale. Più tardi questa regola, nota col nome di “rasoio di Occam”, fu espressa anche con la formula Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem (Non moltiplicare gli elementi più del necessario). Essa invita a realizzare il massimo risultato con il minimo sforzo nel campo della logica. Un principio di semplicità che, se adottato sul terreno fiscale, avrebbe risparmiato molte pene agli italiani.