Come ridurre le disuguaglianze. Il ruolo dell'Antitrust
Non ci si può chiudere alle innovazioni, ma occorre vigilare bene
Pubblichiamo un estratto di “Disuguaglianze. Come ridurle, nel mercato e tra i consumatori”, il libro di Roberto Sommella edito da Rubbettino (176 pp., 14 euro). L’autore è direttore Relazioni Esterne e Rapporti Istituzionali dell’Autorità Antitrust.
Per gli statalisti antimercato, ammoniva Ronald Reagan, bastano tre regole: se qualcosa si muove tassalo, se si muove ancora, regolamentalo, se non si muove più sussidialo.
L’ispiratore delle reaganomics non avrebbe mai potuto immaginare la potenza di fuoco della sharing economy e l’impoverimento salariale di due terzi della popolazione dei 25 paesi più sviluppati al mondo registratosi tra il 2005 e il 2014. Oggi potremmo aggiungere: se aumentano le disuguaglianze, prova a ridurle senza frenare il progresso. Non è facile.
Il numero delle applicazioni è passato da 38.000 nel 2009 a 4 milioni nel 2015, il volume d’affari dell’economia condivisa nel 2008 valeva 1,9 miliardi di dollari e ora supera i 120 miliardi, nel 2020 negli Stati Uniti il 40 per cento dei lavori sarà autonomo e in qualche modo legato alla rete. La nuova era poggia su un semplice assunto: la tua casa, la tua auto, il tuo appartamento, persino il tuo giardino, ti appartengono e da questi puoi trarne profitto. Questa consapevolezza è divenuta piena nel nuovo millennio ma la potenzialità della condivisione fu chiara già a Karl Marx nel 1846, quando descrisse la società comunista, usando parole decisamente profetiche: “la possibilità di fare oggi una tale cosa e domani un’altra, di cacciare al mattino e di pescare nel pomeriggio, di praticare l’allevamento la sera e di fare della critica dopo i pasti. Tutto a proprio piacimento, senza essere pescatore, cacciatore o critico”. E’ la migliore definizione dell’economia condivisa. C’è da capire chi protegge il cacciatore, il pescatore e il critico in quest’epoca di grande trasformazione.
Le forze che hanno spinto il cambiamento agiscono con una velocità senza uguali. La globalizzazione, il mercato unico, la creazione dell’euro, l’affermazione di internet e delle tecnologie digitali, tutte insieme e ognuna con la sua spinta motrice, hanno trasformato l’economia digitale nell’ossatura della nuova era industriale, fatta di internet, delle piattaforme che operano nel web, di commercio online, di fabbriche robotizzate, di Internet of Things. Oggi ci si chiede se tutto questo progresso impetuoso abbia funzionato, abbia portato sviluppo, felicità e coesione sociale, visto che la ricchezza di pochi milionari nel mondo ha raggiunto quella delle nazioni. (…)
L’inasprirsi dello spread sociale
Le top aziende della Silicon Valley occupano 137.000 dipendenti e capitalizzano ciascuna circa 1.000 miliardi di dollari, mentre le tre sorelle di Detroit delle auto nel 1990 quando Reagan era ormai in pensione, facevano lavorare 1.200.000 addetti e valevano 37 miliardi. L’aumento del capitale e la riduzione del lavoro vanno di pari passo con l’inasprirsi dello spread sociale. Dietro c’è l’innovazione disruptive, di schumpeteriana memoria, quella che destabilizza e cambia drasticamente i mercati, segnando una fase di discontinuità nella loro evoluzione. Non si tratta di miglioramenti tecnologici incrementali, regolari e prevedibili, ma di scoperte rivoluzionarie, di innovazione di prodotto, di modifiche dei processi produttivi, di modelli di business impensabili nel Novecento, che portano a cambiamenti inaspettati nel modo di organizzare la fabbrica, gli scambi e le catene del valore.
Lo scontro tra abitanti del vecchio mondo e nuovi visitatori è perciò fenomenale. E qui entra in gioco il ruolo dell’Antitrust. A monopoli di antica schiatta tendono a sostituirsi posizioni di nuova generazione, perché l’innovatore di successo può sfruttare i vantaggi derivanti dalle economie di scala, dalle esternalità di rete, dalla possibilità di conquistare consumatori in una dimensione globale e dall’utilizzo commerciale dei dati personali. Negli Stati Uniti esistono i primi casi di cartelli degli algoritmi e presto ce ne saranno anche in Europa, perché i nuovi monopolisti, i “datapolist’’, gli unici padroni dei dati, hanno fornito alla società il beneficio dell’innovazione, compreso il rischio che poi utilizzino il loro potere di mercato per impedire che altri innovino oppure per sfruttare chi utilizza i suoi servizi.
Non si può evidentemente avere un atteggiamento di chiusura alle innovazioni, sarebbe peraltro inutile, ma occorre vigilare. All’esigenza di mantenere aperti i nuovi mercati si è aggiunta infatti una forte richiesta di giustizia sociale. Da una parte, la perdita di reddito, soprattutto da parte della classe media, depotenzia la domanda interna; dall’altra, la concentrazione di ricchezza può spingere chi è in cima a chiudere i cancelli dell’ascensione. Stiglitz ritiene che una delle cause della crisi del 2008 sia da rintracciare proprio nell’eccesso di disparità sociali e per questo auspica l’irrobustimento dell’azione antitrust. Ma davvero si possono ridurre le disuguaglianze usando l’arma dei tutori del mercato? Certamente gran parte dei problemi delle nostre società coinvolgono proprio il livello di concorrenza: la sostituzione della competizione con la rendita, i tentativi di chi ha un elevato potere di mercato di bloccare le invenzioni, l’emergere di nuovi monopolisti, la nascita di ulteriori gatekeepers.
Probabilmente non spetta all’Autorità nazionale, europea o americana, risolvere da sola molte delle questioni epocali che abbiamo di fronte, ma può senz’altro ampliare il suo spettro d’azione. Perseguendo gli abusi di posizione dominante sulle piattaforme digitali, sanzionando i cartelli di prezzo studiati al computer, colpendo le innovative quanto innumerevoli pratiche commerciali scorrette che insidiano il risparmio. Alla ricerca del doveroso equilibrio della sua azione, per cui non si può rafforzare il debole indebolendo il forte, ma bisogna pur difendere il primo dagli abusi del secondo. Così ci ha insegnato Lincoln e almeno questo non è cambiato.