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Il flirt di M5s e Pd sul salario minimo restaura il monopolio sindacale

Giuliano Cazzola

Anziché il “cambiamento’’, vi è il tentativo di ripristinare quel “piccolo mondo antico’’ che ha tirato avanti per decenni

Nelle aule delle Commissioni parlamentari si sta intessendo un dialogo tra il M5s e il Pd, con la mediazione dei sindacati. Ormai sono “passati in giudicato’’ quota 100 (e dintorni) e il reddito di cittadinanza: misure che, in fase di attuazione, confermano le critiche loro rivolte nel senso che, nel caso delle pensioni, non vi è (o è assai modesto) l’effetto sostitutivo di manodopera, mentre, per quanto riguarda il rdc, si verifica e si allarga quella discrepanza che si era temuta tra la fase dell’assistenza (che è già operante) e quella delle politiche attive (che resta una chimera).

 

Il Parlamento ora si sta occupando di due temi importanti: nella commissione Lavoro della Camera è iniziato, con le audizioni di rito, l’esame dei vari ddl sulla rappresentanza sindacale, mentre quella del Senato si sta occupando da settimane dei ddl sul salario orario minimo. In parallelo con l’attività referente nelle commissioni sono in corso dei confronti tra il governo e le organizzazioni sindacali, che proseguono in maniera abbastanza costruttiva. Questo lavorio lascia presumere che tra uno dei due governi contemporaneamente in carica nel paese (ambedue presieduti da Giuseppe Conte in regime di unione personale) e le organizzazioni sindacali storiche si stia predisponendo una sorta di Patto di Palazzo Vidoni alla rovescia, che potrebbe influenzare anche nuovi scenari politici. Nell’ottobre del 1925, furono estromessi i sindacati democratici e venne riconosciuta la rappresentanza esclusiva alle organizzazioni corporative fasciste. Oggi il “governo giallo’’ cerca una legittimazione (che a Berlusconi non fu mai concessa) da parte di Cgil, Cisl e Uil. E ha predisposto, in cambio, un pacchetto ambizioso di tutele sindacali che potrebbero rimettere al centro del sistema i sindacati tradizionali quali rappresentanti, ope legis, del mondo del lavoro. Da un lato – nel dibattito nella Commissione Lavoro della Camera – si profila un modello di rappresentanza mutuato dagli accordi sindacali e dal c.d. Testo Unico sottoscritto dalla Confindustria e le confederazioni nel 2014. Sostanzialmente l’impianto si riferisce al solito mix di iscrizioni e di voti. Un’impostazione siffatta ricalca tentativi già compiuti nel passato e non è incompatibile con quanto previsto dall’articolo 39 Cost., ovviamente dando per acquisiti l’esistenza di statuti “a base democratica’’.

 

Il clou dell’operazione, però, si svolge al Senato, sempre in commissione Lavoro, in occasione dell’esame dei ddl proposti per l’introduzione del salario minimo garantito. I due disegni di legge più importanti sono quello della presidente Nunzia Catalfo (M5s) e quello del senatore Tommaso Nannicini (Pd), che ha incorporato il ddl a prima firma Laus presentato in precedenza da un gruppo eterogeneo di senatori di sinistra. Il ddl pentastellato attribuisce efficacia erga omnes “al trattamento economico complessivo’’ sancito nei contratti collettivi, qualificando il suddetto trattamento quale retribuzione proporzionata e sufficiente ai sensi dell’articolo 36 Cost. In più, stabilisce che il salario orario legale (quindi anche quello contrattuale) non possa essere inferiore a 9 euro lordi. Con un altro formidabile assist il disegno Catalfo sgombra il campo dalla gramigna dei c.d. contratti pirata, affermando che, in presenza di una pluralità di contratti collettivi applicabili, il trattamento economico complessivo (il concetto è assai più ampio di quello di minimo tabellare) non può essere inferiore a quello previsto dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale; e in ogni caso non inferiore all’importo di 9 euro lordi. Il ddl a prima firma Nannicini considera “giusta retribuzione’’, applicabile a tutti i lavoratori del settore, quella stabilita dai contratti collettivi nazionali di lavoro che abbiano le medesime caratteristiche sancite dall’altro ddl. Dove fa capolino il salario minimo? Negli ambiti di attività non coperti dai contratti collettivi stipulati dalle associazioni di rappresentanza, è istituito il ‘’salario minimo di garanzia’’ quale trattamento economico minimo che il datore di lavoro è tenuto a corrispondere ai dipendenti, secondo gli importi stabiliti.

 

La differenza tra i due progetti è sottile ma percepibile. Il ddl del M5s assume il salario minimo come riferimento generale anche per la contrattazione collettiva, mentre il ddl Pd attribuisce al salario minimo un ruolo di garanzia per quei settori privi di copertura contrattuale. A questo punto, però, il salario minimo si rivela una questione di carattere secondario, rispetto alla vera novità di questi provvedimenti che è quella di consegnare, in pratica, alle parti sociali tradizionali il monopolio della contrattazione, con un effetto di valore generale. Anziché il “cambiamento’’, vi è il tentativo di ripristinare quel “piccolo mondo antico’’ che ha tirato avanti per decenni. Saranno dunque i sindacati i primi a “romanizzare’’ i barbari?