Luigi Di Maio e Vincenzo Boccia (foto LaPresse)

Confindustria crede alla normalizzazione

Giuseppe De Filippi

Il presidente Boccia denuncia i fallimenti del governo, ma tende la mano

Roma. Alla metà esatta della relazione del presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia, arriva uno slogan, uno di quei passaggi che nel testo scritto sono evidenziati in grassetto, con cui si vuole dare senso all’impegno europeista e sviluppista ribadito dagli industriali italiani fin dal video, bello ed emozionante, di apertura dell’assemblea di ieri e a cui si è voluto ispirare l’intero messaggio da affidare a chi ascolta. Boccia parla delle tre P, e noi le lasciamo in maiuscolo come nel testo originale, di “Pace, Protezione e Prosperità”. Bene, l’effetto c’è, in tutta evidenza, e c’è anche un retrogusto. Esattamente, se permettete e detto nel senso più positivo possibile, un retrogusto cinese. Sembra di avere a che fare con quegli indirizzi dati sinteticamente a un paese, a un gruppo sociale, per avviarli verso la crescita, peculiari della Cina da Deng Xiaoping in avanti, sembra di sentire, ora, il presidente Xi Jinping. Indirizzi dati sapendo di avere a che fare con un corpaccione disorientato, senza strategia, indebolito, come avveniva nella prima fase della transizione cinese verso il rafforzamento dell’economia produttiva. Ma il parallelo, da cui usciremo presto per non associare oltremodo la Confindustria sostenitrice dei valori democratici a un regime in cui non vige la democrazia, può andare avanti ancora un pochino. Perché Boccia parla di “politica dei fini” e dei “grandi obiettivi”. E qui si sente miagolare il gatto di Deng, quello che prendeva il topo a prescindere dal proprio colore. Perché la politica dei fini, che quindi non si fissa sugli strumenti ma sugli obiettivi, è il punto di incontro tra il pragmatismo confindustriale e il vuoto ideologico e programmatico di chi ci sta governando, in modo estremo nella componente a 5 stelle. O meglio, ripartendo dalla condivisione dei fini da raggiungere, in modo quasi pedagogico, Boccia e i suoi tentano di offrire un’opportunità anche a chi, pur governando, non saprebbe dove mettere le mani e neppure saprebbe perché dovrebbe farlo. Un corso accelerato di politica concreta, regalato a chi vuole ascoltare. E nell’elenco di questi fini, completamente e (forse saggiamente) deideologizzati dal presidente di Confindustria, incontriamo ad esempio le realizzazioni infrastrutturali. 

 

E così, dicendo “tre sì: alla Tav, alle infrastrutture, alla crescita”, Boccia non solo strappa un forte applauso ma segnala che quelli sono fini possibili, realizzabili, che vanno liberati dai ghiaccioli che raccolsero traversando le nebulose della polemica politica e dell’antipolitica grillina. A Luigi Di Maio e al premier Giuseppe Conte, che poi parleranno, arrivano non critiche, è come se Confindustria se ne fosse stancata, ma ragionevoli offerte di consulenza gratuita. Volete il buon senso? eccolo, ma condito, ravvivato, anche con intelligenza e visione. Riaprire i cantieri dice Boccia, e gli stessi Di Maio e Conte diranno dopo che il provvedimento con cui si è tentato di farlo ha recepito indicazioni dalle imprese e che ancora di più se ne chiederanno. Tutti sanno che quel provvedimento non produce ancora effetti, che potrebbe (paradosso) essere un’incompiuta, come le opere che non riesce a sbloccare. Ma, si diceva, Confindustria si è stancata di criticare a vuoto e fa la faccia di chi prende sul serio quell’impegno (contano i fini, no?) e Boccia riconosce che con decreto crescita e sblocca cantieri “siamo sulla strada giusta”. Benissimo, poi andrà tutto realizzato e riempito di contenuti. E noi ci siamo, dice tra le righe Boccia, e ci saremo anche dopo le famose europee, perché “non siamo né maggioranza né opposizione, né popolari né socialisti o populisti, ma siamo italiani, siamo imprenditori e siamo Confindustria”. E quindi saranno e non saranno tutte queste cose anche quando si dovranno fare i conti con la manovra economica, e si dovrà trovare la strada per “più lavoro, più crescita e meno debito pubblico”.

 

La pedagogia confindustriale dice, anche a costo di dover forzare teste un po’ dure, che quella strada è solo in Europa, che i nostri principali alleati verso quella direzione sono Francia e Germania, che, tanto per dare un numeretto, euro ed Europa hanno confinato nei libri di storia i disastri dell’Italia con la lira sovranista, inflazione a due cifre, perdita di potere d’acquisto, raddoppio del debito pubblico in 10 anni, e ci hanno regalato invece risparmi per 500 miliardi nei tassi d’interesse del nostro debito tra il 2000 e il 2018. Quindi basta con le profezie negative e basta con le frasi “che generano sfiducia”, e arriva un altro dei tanti applausi, e basta anche con la “bulimia da consenso immediato via social”. Boccia, quasi in chiusura, cita Karl Popper sul futuro aperto, che dipende da noi, “da ciò che facciamo e faremo e da come vediamo il mondo”. Era partito invece dal Talmud per dire che “non vediamo le cose come sono, le vediamo come siamo”. Due messaggi quasi convergenti, tra il filosofo e il libro sacro dell’ebraismo, ma che vanno subito riportati anche agli interlocutori presenti. Perfette per capire quanto non ci basti, e anzi ci dica poco, sapere come Di Maio e Conte “vedono le cose”. E presidente e vicepresidente questo invito, questo richiamo gentile, questo affettuoso interesse, lo scambiano, come sempre, per una trappola. Si rifugiano in discorsi confusi, affastellando dati un po’ alla buona, o citandosi come fautori di un poco concreto “nuovo umanesimo”. Giusto un granello raggiunge il discorso di Di Maio, quando il ministro dello Sviluppo si dice “contrario ai no pregiudizievoli”. E’ una cosina, ma non gli fa avere neanche un applauso dalla platea confindustriale durante il discorso, e quello finale di applauso è di una tiepidità impressionante. Uno solo, invece, interrompe il discorso di Conte, ma è un applauso a rovescio, perché arriva a sottolineare il passaggio in cui il presidente del Consiglio riconosce di “essere al G7 grazie a voi”. Insomma, è un autoapplauso. Erano applausi espressivi, che dicevano molto, come succede spesso ultimamente. E in sala lo avevamo capito subito, sentendo quello straordinario per l’ingresso del presidente Sergio Mattarella.

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