Piccole banche non crescono
Mentre riprende il gioco delle grandi acquisizioni, le regole uguali per tutti penalizzano gli istituti minori
Chi si compra la Commerzbank? L’italiana Unicredit per la quale fa il tifo anche Matteo Salvini dopo aver sparato in piazza contro i banchieri? E chi si compra la Deutsche Bank, forse Goldman Sachs, il burattinaio americano del pluto-giudaismo massonico? Sì, perché nonostante le bordate dei populisti, il grande gioco di matrimoni, fusioni e acquisizioni è ricominciato. Le banche europee non sono abbastanza forti per tenere il passo di un’economia sempre più globale, almeno così si dice, quindi debbono crescere; le piccole non resistono e la loro sorte sembra segnata. Può darsi che mega-mergers come Deutsche-Goldman vengano bloccati dall’Antitrust e che le nozze tra Unicredit e Commerz siano impedite dal risorto nazionalismo germanico o magari da un novello don Abbondio con in tasca il breviario di regole della Ue incomplete e squilibrate (mentre i bravi all’angolo della strada se la ridono); in ogni caso il processo di concentrazione sta sollevando interrogativi, inquietudini, proteste non solo dai paleo-protezionisti, i quali chiedono di essere protetti su base locale oltre che nazionale, ma anche da chi ha a cuore la concorrenza.
La Germania ha meno del doppio del pil italiano ma dieci volte più banche. Nel 1990 ne avevamo 1.156, nel 2017 si erano ridotte a 460
L’Italia non è rimasta fuori dalla corrente. Nel 1990 c’erano 1.156 banche, nel 2017 erano diventate 460. A inizio di quest’anno, con la fusione della maggior parte delle banche di credito cooperativo in due grandi gruppi, sono circa 160. Giuliano Amato definì all’inizio degli anni Novanta il nostro sistema bancario come “la foresta pietrificata”. Oggi è più simile a una foresta disboscata. Le banche tedesche non sorvegliate direttamente da Bruxelles (in quanto di minori dimensioni) sono 1.555. La Germania ha meno del doppio del prodotto interno lordo italiano ma dieci volte più banche. Secondo gli analisti e le stesse autorità regolatorie europee, questo è un motivo di allarme, perché rivela un sistema creditizio infeudato agli interessi locali molto permeabili alla politica ed esposto a fenomeni di mala gestio per ragioni clientelari. Averle tenute fuori dalla vigilanza unica europea non le protegge affatto, al contrario. Non solo, l’integrazione tipica dell’economia contemporanea non consente a nessuno di restare fuori dal gioco. Il crollo di una banca locale, per quanto piccola, è destinato a provocare una reazione a catena che si ripercuote sull’intero sistema creditizio. E alla fine pagano i contribuenti. L’Italia lo ha dimostrato e l’Italia non è un’eccezione.
Secondo la Commissione europea, nel 2013, prima dell’unione bancaria, operavano nell’Eurozona circa 8.000 aziende di credito. Oggi sono 3.400 circa. E tuttavia l’Europa resta indietro rispetto agli Stati Uniti e molti vedono questa frantumazione come sintomo di debolezza. I giganti americani fanno il bello e cattivo tempo nel ramo d’affari più profittevole (e rischioso) cioè l’investment banking. La Deutsche Bank, che nell’ultimo decennio ha cercato di competere sullo stesso terreno, ha alzato bandiera bianca: ha tentato di rientrare nel mestiere tradizionale, a lungo trascurato, e cioè prestare denaro a famiglie e imprese, ma non è riuscita a invertire la tendenza.
Il rafforzamento patrimoniale a spese del credito alle imprese. Tra grandi e piccole banche occorre trovare un nuovo punto d’equilibrio
C’è chi dice che in Europa vi sia una regolamentazione sfavorevole alla crescita dimensionale delle banche. Non è d’accordo Francesco Maiolini, direttore generale di Igea Banca che ha da poco acquisito dalla famiglia Torlonia la Banca del Fucino. “In realtà, è il mercato che sembra non premiare le ipotesi di nuove aggregazioni, probabilmente perché considera i problemi di governance legati alla grande dimensione”. Proprio la governance, forse ancor prima delle pressioni politiche, è il primo problema da risolvere quando si discutono i contratti di matrimonio tra imprese. Maiolini guida una piccola banca e si fa paladino di un grido di dolore che sale da questo mondo. E’ una reazione difensiva, una lotta per la sopravvivenza, la pressione per ottenere condizioni di favore? “No, direi che servirebbero condizioni di non sfavore. Oggi ci sono diverse fonti di distorsione della concorrenza, a svantaggio delle banche di minore dimensione. La prima è proprio il fatto di stabilire regole eguali per tutte, il principio del “one size fits all”. Le regole invece dovrebbero rispettare il principio di proporzionalità. E’ assurdo chiedere a una piccola banca locale non quotata di rispettare gli stessi requisiti in termini di capitale, di conformità normativa e controlli interni richiesti a una grande banca quotata che ha attivi per decine di miliardi di euro. Ciò comporta costi in proporzione molto maggiori per la banca piccola, tali da compromettere la redditività e competitività delle banche piccole e medie”.
Negli Stati Uniti si è adottato un criterio di proporzionalità nell’applicare la normativa bancaria e questo ha giovato all’attività creditizia tradizionale. A fianco delle grandi banche, ci sono molte banche di comunità e banche regionali, ben più che in Europa: ancora nel 2016 erano 5.560. Camillo Venesio, amministratore delegato della Banca del Piemonte (che molti danno in pole position per sostituire Antonio Patuelli alla testa dell’Assobancaria), ha ricordato recentemente che in stati come il Kansas o l’Oklahoma, che hanno tra i 3 e i 4 milioni di abitanti, esistono all’incirca tante community banks quante sono nel loro complesso le banche italiane. “Una regolamentazione proporzionale non accresce i rischi”, insiste Maiolini. Lo ha messo in rilievo anche Rainer Masera in un suo libro appena uscito (“Community banks e banche del territorio: si può colmare lo iato sui due lati dell’Atlantico?”).
In Europa, a differenza dagli Stati Uniti, si è deciso di far adottare a tutte le banche le regole di Basilea III sui requisiti patrimoniali, allo stesso modo, a prescindere dalla dimensione. Ma come spesso accade per regole uguali per tutti, il principio di equità entra in conflitto con il principio di realtà. Si crea, così, un’ulteriore distorsione: mentre le banche piccole debbono applicare il metodo standard per misurare il rischio, le grandi possono usare sistemi di rating interni più permissivi, riducendo l’entità del capitale da porre a copertura del rischio. La taglia, del resto, finisce per diventare essa stessa una barriera difensiva. Questo è vero in ogni situazione di oligopolio o semi-monopolio, ma è ancor più vero nel mondo bancario, dove vige un criterio profondamente anti concorrenziale: il too big to fail. Quando una banca è così grande da diventare un pilastro del sistema, quando raccoglie e intermedia tanto risparmio da condizionare l’andamento dell’economia, nessuno si assume la responsabilità di farle chiudere i battenti. Un esperimento in corpore vili, come il fallimento della Lehman Brothers nel settembre del 2018, ha messo una pietra tombale sopra la speranza liberista di considerare le banche delle imprese come tutte le altre. Non solo, la convinzione che una banca di grandi dimensioni non possa fallire, spinge i risparmiatori a sceglierla per depositare i propri quattrini e ciò riduce il costo della raccolta rispetto alle banche più piccole. Insomma, è un meccanismo che si auto-alimenta, che riduce la concorrenza e distorce le regole di mercato.
Maiolini: “Il mercato non premia le ipotesi di nuove aggregazioni, forse per i problemi di governance legati alla grande dimensione”
La crisi ha acceso i riflettori su un’altra realtà che era stata sottovalutata quando sembrava che il sistema finanziario avesse trovato la sua cornucopia. I derivati assomigliavano ai vini che Mefistofele sparge nella taverna di Auerbach: borgogna, champagne, tokai, prendete e bevete ce n’è per tutti, non potranno mai finire perché si riprodurranno all’infinito, con continui passaggi di mano e ridefinizione dei contratti. Una illusione perniciosa perché questi strumenti giuridico-finanziari sono vere bombe a orologeria nascoste soprattutto nei bilanci delle maggiori banche. Si pensi per esempio alla Deutsche Bank. Secondo Maiolini, “negli anni scorsi vi è stata, da parte della Vigilanza europea, la sistematica sottovalutazione del fattore di rischio sistemico rappresentato dalle attività finanziarie delle grandi banche in derivati e altri strumenti finanziari. Per contro si è posta molta, troppa enfasi sul rischio di credito. L’attenzione si è fissata sui crediti problematici, imponendo tempistiche di vendita dei non performing loans molto ravvicinate che hanno ovviamente fatto crollare i prezzi e reso felici i compratori. In ogni caso, in questo modo si è dato un vantaggio a chi fa finanza rispetto a chi fa credito. E, come è noto, le banche italiane sono tra quelle che hanno una maggiore proporzione di crediti sul totale attivo”. Due pesi e due misure? La critica è pesante e secondo alcuni può diventare assolutoria per chi ha concesso prestiti con faciloneria, scarsa attenzione al merito di credito, se non cedendo alle pressioni politico-clientelari, proprio come è venuto fuori con le crisi delle banche venete, delle quattro banche del centro Italia e adesso della genovese Carige. Tuttavia l’allarme sui derivati si leva ormai da molte parti. Il direttore generale della Banca d’Italia, Fabio Panetta, ha messo il dito su questa distorsione, ricordando che le attività finanziarie in derivati e simili detenute dalle principali banche europee sono pari a circa 12 volte il valore dei crediti deteriorati di tutte le banche dell’area euro.
La polemica del mondo bancario italiano, a cominciare dall’Abi e dalla stessa Banca d’Italia, si è fatta più aspra dopo la decisione della Commissione europea di proibire, considerandoli aiuti di stato, i salvataggi realizzati con il fondo interbancario di tutela dei depositi, che è alimentato da risorse private. Come ricordato in un intervento del marzo scorso da Carmelo Barbagallo, capo della vigilanza della Banca d’Italia, il sistema bancario italiano è stato ricapitalizzato per ben 73 miliardi e ha saputo far fronte alla crisi in gran parte con risorse proprie, a differenza di quanto accaduto praticamente in tutti gli altri paesi dell’Unione europea. L’impegno dello Stato italiano è stato ben inferiore a quello che si è avuto in Germania, Francia, Olanda, per non parlare del Regno Unito. Tuttavia, il rafforzamento patrimoniale delle banche è avvenuto anche a spese del credito alle imprese, che dal 2007 in poi si è ridotto di 100 miliardi di euro. Questo in parte è la conseguenza di un eccessivo bancocentrismo. La stragrande maggioranza del finanziamento alle imprese in Italia passa attraverso le banche per la debolezza della Borsa (dominata, essa stessa, dai titoli bancari) e il mancato decollo dei fondi pensioni e degli investitori istituzionali. E’ una peculiarità che avvicina l’Italia alla Germania, ma l’allontana da altri paesi, Francia compresa. Secondo Maiolini non è un segno di arretratezza, perché “per un’impresa – soprattutto se è piccola – il costo del credito è inferiore al costo di finanziarsi direttamente sul mercato dei capitali”. Ciò spezza un’altra freccia a favore della proporzionalità per “tutelare la biodiversità all’interno del sistema bancario. Questo è particolarmente vero in Italia, dove il segmento delle piccole e medie imprese è oggi servito in particolare dalle banche di prossimità le quali, in particolare quelle con un azionariato diffuso, hanno un forte radicamento territoriale e quindi la conoscenza del tessuto economico di riferimento necessaria per dare credito a chi ne può davvero fare l’uso migliore”.
Il grido di dolore delle piccole banche non sale solo dall’Italia. C’è una forte pressione a favore di una effettiva proporzionalità in altri paesi europei, a partire dalla Germania. Una ricerca della BaFin, l’autorità di vigilanza finanziaria della Germania, sottolinea che i costi fissi di compliance (conformità alle norme) investono in modo sproporzionato le banche più piccole. Diverse associazioni di categoria si stanno muovendo con energia in questa direzione. Maiolini si augura che gli eletti italiani al prossimo Parlamento europeo si facciano interpreti di queste esigenze. “Non sarebbero soli”, aggiunge, e spera che venga salvata anche un’altra “prossimità”, quella della vigilanza. “Noi siamo sempre i primi a denigrare noi stessi, ma i due organi di vigilanza nazionale migliori in campo europeo sono la Banca d’Italia e la Banque de France: lo chieda a qualunque operatore del settore e avrà questa risposta. E’ importante che questo patrimonio di conoscenza non sia sacrificato a favore di un approccio omologante e algoritmico, inevitabilmente tarato sulle grandi realtà bancarie. Il principio di proporzionalità è scritto nei Trattati europei. E’ importante che trovi piena applicazione nel nostro settore anche dal punto di vista della vigilanza”.
In Europa, le stesse regole a prescindere dalle dimensioni. Il “too big to fail” un criterio profondamente anti concorrenziale
Non è solo una battaglia tra grandi e piccoli, perché viene alla luce la differenza di modelli economici all’interno della stessa Eurozona, che la moneta unica non ha uniformato. Certamente è segno di astrattezza illuministica pensare che a moneta unica corrisponda un’unica e omogenea struttura economica tale da cancellare la rugosa diversità della storia. Il processo di convergenza non significa omologazione. Tra grandi e piccole banche, dunque, occorre trovare un nuovo punto d’equilibrio. E’ uno dei compiti più delicati che spetta alla nuova Commissione europea, ma anche al presidente della Bce che sostituirà Mario Draghi dal 1° novembre prossimo. La taglia è fondamentale per un sistema finanziario e creditizio che accompagni la globalizzazione. La diversificazione è altrettanto importante per ammortizzare l’impatto della “distruzione creatrice”, tecnologica prima ancora che monetaria o mercantile, su economie che mantengono le loro fattezze pur rinnovandole. La risposta, probabilmente, è la specializzazione. Le grandi banche s’illudono di poter fare tutto, le piccole sbagliano clamorosamente se vogliono imitare le grandi su scala minore. Ma questa è un’altra storia.