Sergio Marchionne e John Elkann (foto Imagoeconomica)

Lezioni per un paese che non ha amato Fiat

Alberto Brambilla

“Forti nell’alleanza grazie alla rivoluzione marchionnesca”. Parla Rebaudengo

"La Fiat rischiava di trovarsi in una situazione di immobilismo, spero che l’accordo con Renault dia una prospettiva diversa e di continuità come l’azienda è riuscita dieci anni fa con Chrysler. Il suo punto di forza nell’alleanza sta proprio nell’avere gli stabilimenti migliori, efficienti, con assenteismo assente: la forza strutturale che le ha dato Marchionne”, dice Paolo Rabaudengo, 72 anni, quarantuno di carriera in Fiat, un sistema dal quale “sono evaso quattro anni, quattro mesi e 28 giorni fa”.

  

 

E’ il manager che ha provato a cambiare l’Italia, insieme a Sergio Marchionne, da direttore delle Relazioni industriali. In concomitanza con l’annuncio dell’accordo per la fusione, lunedì, il vicepremier Matteo Salvini ha detto che – se venisse richiesto – lo stato potrebbe avere un ruolo in Fiat. Rebaudengo, è fondata la preoccupazione la presenza dello stato francese, che ha il 15 per cento di Renault, nell’alleanza? E, poi, cosa ne pensa dell’estrema attenzione riservata a Fiat dalla politica nonostante non abbia né capitale né capacità di influenza? “Non so quale idea abbiano i francesi, sono fuori dai giri aziendali – dice – Certo è che il governo francese è molto attento alla propria industria, lo abbiamo visto in tante occasioni. I francesi hanno la capacità di tutelare le imprese, gli italiani sono a disagio nel farlo. La Fiat – ricorda – è sempre stata oggetto più di critiche che di attenzione, solo ultimante la parte preponderante del sindacato ha capito che doveva cambiare registro per tenere Fiat in Italia”.

 

E’ dopo la crisi del 2008 che Rebaudengo ha spiazzato la Fiom di Landini e la Confindustria con l’accordo di Pomigliano, un contratto alternativo a quello nazionale che ha cambiato radicalmente le relazioni industriali in fabbrica ed è stato applicato in tutti gli stabilimenti Fiat, con successo. “L’operazione che abbiamo fatto da Pomigliano in poi è che siamo passati dal taylorismo al World class manufaturing, dalla misurazione del tempo a quella della fatica, ed è stata possibile perché gli ingegneri, spesso deprecati, ci hanno creduto. Nel suo dna Fiat ha ancora queste caratteristiche che interessavano a Chrysler e possono interessare a Renault. Che poi siano state riconosciute e verranno riconosciute non lo so, ma le competenze industriali di Fiat sono state determinanti per la rinascita”.

 

A cosa è servito lo scontro di quegli anni dal momento che ancora oggi sembra a rischio la presenza dell’attività degli impianti italiani, o almeno la loro saturazione? “Lo scontro del 2010 è stato un grosso sforzo per mantenere la presenza industriale in Italia e avere le condizioni per restare, uno scontro che ho condotto sotto l’egida di Marchionne. Purtroppo la saturazione degli stabilimenti dipende molto dai volumi, pur facendo vetture di assoluto livello. Chi oggi dice che non si chiudono gli stabilimenti – dice Rebaudengo – fa un’affermazione politica, ma sono stabilimenti di assoluto valore. Se questa operazione consentisse di saturare gli stabilimenti sarebbe interessante dal punto di vista industriale. Ma, anche qui, la Fiat è sempre l’occasione per fare una rivendicazione, mai per proteggerla. Per dire, in Francia quante amministrazioni comunali acquistano vetture della concorrenza?”. Adesso però non è raro, anzi, sentire politici e commentatori parlare di Fiat come di un’azienda simbolica dell’orgoglio italiano da difendere. “Beh, che senso avrebbe rimpiangerla quando non le si è mai voluto bene? La Fiat chiedeva la cassintegrazione e si ‘davano soldi alla Fiat’, quando in realtà si davano a tutti gli operai. Marchionne è stato bravissimo a smontare questo meccanismo: abbiamo fatto Pomigliano e Melfi, fabbriche modello, non abbiamo chiesto un finanziamento e potevamo chiederlo. Il sud è martoriato da apparenti imprenditori che prendono i soldi e poi lasciano i capannoni vuoti nei disastri industriali. Noi abbiamo chiuso Termini Imerese e non abbiamo chiesto nulla, l’abbiamo tenuta in piedi due anni senza che nessuno subentrasse. La differenza tra Fiat e altri è emblematica. Ora tutti a chiedere cosa deve fare. Marchionne s’è preso tanti insulti, nessuno ci credeva, ma Pomigliano è il migliore stabilimento d’Europa. Oggi, con Renault, anche questo conta”.

 

Per Rebaudengo la distanza del sistema politico e dell’establishment è stata più volte confermata e se Fiat può entrare in un’alleanza mondiale lo deve a se stessa e a Marchionne. “Era finita nel 2002, ha avuto la fortuna di trovare Marchionne che gli ha ridato vita: ho vissuto il dibattito a Palazzo Chigi, andavo a trattare con un sindacato che voleva dettare le regole, erano tutti padroni, tutti bravissimi imprenditori… per fortuna Marchionne ci ha messo la sua dedizione assoluta per cercare di farla uscire dall’imbuto e ci è riuscito. Poi la crisi non consentiva più di sopravvivere a mercati e globalizzazione e, con genialità, ha trovato la fiducia degli Stati Uniti. Eppure qui, l’Italia, Torino, non ci credeva minimamente. D’altronde pensiamo all’operazione del convertendo: è un esempio emblematico della totale mancanza di fiducia delle banche italiane – ricorda il manager – Per Marchionne era importante convertire quei 3 miliardi di debito in capitale, non importava se le banche diventavano azioniste o gli Agnelli mantenevano o meno la loro posizione. Le banche che hanno mantenuto le azioni hanno avuto una bella plusvalenza, ma il sistema, la Intesa Sanpaolo di Enrico Salza, grande mente torinese, ha mollato le azioni. Cosa pretendente che faccia ora la Fiat? Ha fatto fin troppo…”. “Ma cosa volete farci – conclude Rebaudengo – in Italia siamo un po’ seduti, c’è da sperare che qualcosa di positivo venga da un’alleanza con Renault. Alleanza che Fiat realizzerà comunque, anche senza l’aiuto di altri”.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.