Il nazionalismo può soffocare la nascita di giganti industriali?
Perché per creare campioni europei gli stati devono superare la volontà di comando
Milano. E’ davvero l’ora dei giganti? La fusione in gestazione tra Fca e Renault disegna un colosso dell’automobile transatlantico che, con il coinvolgimento dei giapponesi di Nissan-Mistubishi, diventerebbe mondiale. L’ingresso di Mediaset nel broadcaster tedesco ProSiebenSat.1 segue l’idea di una Netflix europea per la distribuzione di contenuti multimediali. E’ la stessa idea seguita da Vincent Bolloré con Vivendi che, lontano dal Biscione, prende il network est nord europeo di M7. Questi accordi pongono una questione all’Europa dove zampillano partiti sovranisti: abbiamo “bisogno di giganti” per promuovere “la sovranità europea”, come ha detto il portavoce dell’Eliseo in merito alle trattative tra Renault e Fca? Un’idea, quella di compagnie paneuropee, che non dispiace nemmeno a Matteo Salvini. E’ dunque possibile un sovranismo economico europeo che contenga quello dell’America di Donald Trump e si opponga a quello della Cina del presidente a vita Xi Jinping? “Si possono cogliere segnali in questa direzione, c’è un tema di crescita dimensionale in vari settori, ma pensare di ancorare i grandi gruppi agli stati nazionali, seppure in un contesto ampio come quello europeo, è azzardato perché potrebbe andare contro l’interesse degli azionisti”, dice al Foglio Carlo Salvato, economista dell’Università Bocconi ed esperto di strategie industriali.
“Se davvero si volessero creare le condizioni per rafforzare il potere economico dell’Europa rispetto a altre aree del mondo i paesi dovrebbero studiare politiche industriali comuni per rendere più conveniente fare qui, piuttosto che altrove, gli investimenti produttivi. Parlo di infrastrutture, di riduzione della burocrazia, del costo del lavoro e del sostegno alla ricerca scientifica. Ma con un Parlamento che si prospetta più frammentato di prima, mi pare difficile individuare linee condivise”. La spinta alle alleanze coinvolge vari settori. La fusione nell’occhialeria tra la Luxottica di Leonardo Del Vecchio e la francese Essilor e l’acquisizione da parte di Edizione Holding della famiglia Benetton delle torri telefoniche spagnole di Cellnex, sono recenti. E poi Mediaset che ha rilevato il 9,6 per cento della tv tedesca ProSiebenSat.1, un’operazione motivata così dall’ad Piersilvio Berlusconi: “Noi operatori media europei avvertiamo la necessità di unire le forze per continuare a competere o anche solo per resistere in termini di identità culturale europea a eventuali ingressi ostili dei giganti globali”.
Vero è che il settore media avverte più di altri la minaccia delle grandi corporation in un settore ritenuto strategico, ma “c’è ormai la tendenza – dice Salvato – a crescere per linee esterne cercando attori culturalmente vicini, a creare alleanze in cui è più facile individuare valori culturali comuni”. I temi principali restano dimensione e competitività. “Sulla scena globale si sono affacciate le società ‘unicorno’, start up che arrivano a capitalizzare più di un miliardo di dollari. Sono cinesi e americane e per lo più operano nel digitale e nell’hi-tech, ma hanno cambiato di colpo la prospettiva della grandezza industriale e della generazione di margini. Competere con questi soggetti non è facile e l’Europa dovrà fare di più per stare al passo”. Intanto, nei settori più tradizionali si cercano merger finalizzati a economie di scala. “Prendiamo l’auto elettrica: se Fca e Renault, nell’ambito dell’alleanza con Nissan e Mitsubishi, riuscissero a creare un’unità produttiva unica per la produzione di batterie, i costi dei veicoli si abbasserebbero con un vantaggio competitivo per il gruppo nascente. Ma attenzione, proprio questa fusione, che già vede una presenza americana nel capitale di Fca e prevede il coinvolgimento di partner giapponesi, non ha del tutto un’identità europea. Perciò, mi pare non abbia molto senso la richiesta del ministro francese Bruno Le Maire di vigilare sugli interessi nazionali, per esempio preservando gli stabilimenti del paese, perché un gruppo globale colloca i centri produttivi dove trova maggiore convenienza”, conclude.