Un cantiere della linea M4 della metropolitana milanese (Imagoeconomica)

La decostruzione creatrice

Stefano Cingolani

Aziende insolventi, progetti fermi, decreto sblocca cantieri sempre rinviato: l’Italia dei costruttori, che è stata motore dello sviluppo, oggi è in un vicolo cieco. Ma prepara il rilancio con un nuovo soggetto pubblico-privato

L’ambiente naturale e quello storico, il paesaggio e l’architettura, questa è l’Italia. Ma quale Italia? Quella del tempo che fu, perché l’Italia presente, quella che vediamo e in cui viviamo tutti i giorni, assomiglia a una terra desolata sulla quale è passato Warlock. Gru immobili e spettrali, impalcature vuote, scheletri di palazzi consumati dal tempo, lunghe strade deserte che finiscono nel nulla, città coperte di spazzatura, mezzo milione di uomini e donne, una folla in attesa di un lavoro che non c’è, fitta come quella che T.S. Eliot vedeva sotto il London Bridge: “Così tanta / Ch’io non avrei mai creduto che morte tanta n’avesse disfatta”. Città irreali nella nebbia bruna di un’alba in questo inverno che sembra non finire mai.

    

Visioni apocalittiche? Incubi ad aria condizionata? Chi non crede a quel che vede ogni giorno, può leggere qualche cifra arida, ma veritiera. L’Italia dei costruttori è stata sepolta dall’Italia dei distruttori, quell’Italia complottarda e riottosa che maledice il presente, ma che teme il futuro. Lo specchio tragico di questo mondo devastato dai falsi profeti è quello che una volta veniva chiamato il motore dello sviluppo, la leva della crescita, il grande acceleratore che a ogni dieci euro investiti riesce a produrne quattordici, vera cornucopia di ogni società affluente. L’industria delle costruzioni vale ancor oggi 160 miliardi di euro e occupa un milione di persone, bloccata da anni è finita in un vicolo cieco dal quale non riesce a uscire. Cinque delle prime dieci società sono insolventi, in concreto hanno già avviato procedure concorsuali e di ristrutturazione del debito. E tra loro troviamo alcuni dei nomi più famosi. C’è la Astaldi che era la numero due dopo Salini-Impregilo, ci sono le Condotte che un tempo appartenevano all’Iri, c’è la Grandi Lavori, c’è la Trevi e c’è persino la mitica Cmc, antica Cooperativa muratori e cementieri di Ravenna, che affonda nella storia del movimento operaio e socialista. I costruttori rossi, così come quelli neri, azzurri o multicolori non hanno resistito alla grande crisi e al blocco dei lavori. Sono fermi progetti per 36 miliardi di euro, 26 dei quali già annunciati dall’Anas e dalle Ferrovie dello stato, strade ponti, tunnel, nuovi binari. Riaprire i cantieri è stato il mantra recitato dagli ultimi governi, quello gialloverde lo ha scritto nel suo programma, ma poi s’è impantanato. Il decreto annunciato da mesi come imminente, viene rinviato ogni volta che sembra sul punto di entrare in Consiglio dei ministri.

   


Per ogni dieci euro investiti riesce a produrne quattordici: l’industria delle costruzioni vale 160 miliardi e occupa un milione di persone


           

Tagliare i lucchetti e spalancare i cancelli è un passaggio decisivo, ma non basta a rimettere in moto una filiera che rappresenta l’otto per cento del prodotto lordo italiano. In tutto il mondo le grandi opere le fanno le grandi imprese, in Italia invece il settore è polverizzato in mezzo milione di aziende, solo dieci delle quali hanno un fatturato superiore a un miliardo di euro. Ovunque il lavoro domestico fa da complemento e supporto ai progetti internazionali. I maggiori gruppi europei, dal francese Vinci allo svedese Skanska, dallo spagnolo Acs all’altro francese Bouygues e al tedesco Hochtief, solo per citare i primi cinque, possono contare per una media del 40 per cento su lavori eseguiti in patria. Per il maggior costruttore italiano, Salini Impregilo, questa quota è di appena il 10 per cento. L’altro problema riguarda la taglia. Vinci ha un fatturato di oltre 40 miliardi di euro, Skanska di 16 miliardi e le altre sono nel mezzo. Salini Impregilo supera di poco i 6 miliardi e Astaldi è a circa la metà. Crescere, dunque, è un imperativo. E l’occasione viene proprio dalla crisi, una distruzione che nessuno avrebbe voluto, ma che può diventare creatrice. Perché dalle ceneri sta per nascere una nuova realtà.

  

Si chiama Progetto Italia, non operazione Fenice, ma il senso è lo stesso. Facciamo un piccolo passo indietro. Le cinque imprese che non ce l’hanno fatta, non sono scatole vuote. E’ vero, l’intero comparto ha accumulato debiti per circa cinque miliardi di euro con le principali banche italiane, ma c’è un portafoglio ordini di tutto rispetto che può raggiungere i 60 miliardi di euro. Quando la Astaldi ha alzato bandiera bianca, la Salini Impregilo s’è fatta avanti, ma si è resa conto che la società romana era “un boccone troppo grande per noi da soli”, ammette Pietro Salini. Anziché desistere l’amministratore delegato ha rilanciato, cominciando a lavorare a una operazione più ambiziosa. Insieme a Massimo Ferrari, general manager corporate e finance, consigliere di amministrazione di Tim, Equita e Cairo, che da anni dirige la parte finanziaria del gruppo, è stato messo a punto un piano per coinvolgere tutti i protagonisti, i costruttori innanzitutto e i finanziatori come le banche, che rischiano di perdere i prestiti erogati. Individuato il perimetro e il fabbisogno, bisognava coinvolgere molti soggetti istituzionali. A questo punto è entrata in scena la Cassa depositi e prestiti. L’amministratore delegato Fabrizio Palermo si è detto favorevole a “una operazione di sistema che faccia nascere un polo delle grandi opere”. Ha dato il suo consenso anche Giuseppe Guzzetti (per conto delle fondazioni di origine bancaria socie di minoranza nella Cdp) il quale invece non ha mai visto di buon occhio operazioni in perdita come il salvataggio dell’Alitalia. Ma nelle costruzioni, più che salvare il vecchio di tratta di creare qualcosa di nuovo. Di che si tratta in concreto?

     


La caduta della società Condotte d’acqua e quella della Coop muratori e cementieri. Il concordato preventivo di Astaldi


    

Salini Impregilo ha avviato già una prima integrazione acquisendo alcune aziende (Astaldi, Seli Overseas e Cossi), i progetti delle società in stato fallimentare (Condotte, Città della Salute, Iricav) e altri in combinazione con società che sono ancora in buona salute come Pizzarotti, Icm e Vianini. Un processo che di qui al 2021 mette insieme un portafoglio ordini di 61 miliardi di euro (33 dei quali portati da Salini Impregilo) con un fatturato di 14 miliardi e un patrimonio di 4 miliardi. I benefici sarebbero molti: salvaguardare mezzo milione di posti di lavoro nei prossimi tre anni, riattivare i cantieri bloccati in 14 regioni; mettere in sicurezza i contratti italiani previsti per i prossimi anni e calcolabili in circa sei miliardi di euro; innescare un effetto volano perché per ogni miliardo di grandi opere ce ne sono circa tre di opere indirette e accessorie; bloccare le ulteriori sofferenze per il sistema finanziario (c’è una esposizione complessiva di 92 miliardi, 26 dei quali sono crediti deteriorati), contribuire allo sviluppo del pil per almeno 0,2-0,3 punti percentuali.

   

Obiettivi ambiziosi, per realizzare i quali deve nascere un soggetto che abbia un assetto nuovo e anche un nome nuovo. In attesa di trovare qualcosa che abbia un appeal sul mercato mondiale, la struttura del gruppo è stata illustrata anche al ministro dell’Economia Giovanni Tria. Il passaggio fondamentale è un aumento di capitale pari a 600 milioni di euro. La famiglia Salini si impegna a investire 50 milioni, la Cdp 300 milioni e le banche 150 milioni, mentre 100 milioni verrebbero da un consorzio di garanzia guidato da Merrill Lynch. Quanto al prezzo di sottoscrizione delle azioni, sarebbe il maggiore tra il prezzo risultante dal valore delle prenotazioni di mercato e quello fissato dal consorzio di garanzia. Se tutto va in porto come previsto la nuova società vedrebbe Salini Costruzioni scendere al 44,9 per cento, la Cdp partecipare con il 22,4 per cento, le banche creditrici con l’11 per cento e il restante 21,4 per cento al mercato. Al sistema bancario verrebbe chiesta una linea di credito di 700 milioni di euro: 200 per rifinanziare la Astaldi; 250 per rifinanziare l’indebitamento della Salini in scadenza nei prossimi tre anni; 250 a sostegno del Progetto Italia (investimenti ed eventuali necessità). Un impegno non indifferente, che consente però alle banche di rientrare da una esposizione che oggi come oggi arriva a 4 miliardi di euro. La presidenza andrà a una personalità dal profilo internazionale indicata dalla Cdp, Pietro Salini sarà amministratore delegato, nel consiglio verranno rappresentati i principali azionisti e, in una forma che si sta ancora definendo, anche le società assorbite. Questa è l’impalcatura finanziaria e industriale, tutto è pronto sulla carta, a meno che la politica non ci metta lo zampino. E la politica o meglio un mélange perverso di ideologia antisviluppista e di interessi contrastanti, è ampiamente responsabile dell’effetto domino che ha travolto l’industria delle costruzioni.

     


Il problema della taglia: la francese Vinci ha un fatturato di oltre 40 miliardi di euro, Salini Impregilo, prima italiana, supera di poco i sei


        

Prendiamo le tre vittime più illustri. La prima a cadere è la società Condotte d’acqua, che a gennaio dello scorso anno ha chiesto il concordato in bianco per bloccare le istanze di fallimento dei creditori, a cominciare dalle banche verso le quali la società è esposta per quasi 800 milioni, e dai fornitori ai quali deve circa un miliardo di euro. All’azienda non mancano i lavori, il portafoglio ordini è arrivato a sei miliardi di euro, ma non riesce a incassare dalle pubbliche amministrazioni, mentre le opere realizzate o in corso di realizzazione sono bloccate (dal Mose alla città della Salute a Sesto San Giovanni, dall’alta velocità di Firenze al tunnel del Brennero). Intanto s’abbatte sui vertici la mannaia giudiziaria: viene arrestato Duccio Astaldi, presidente del consiglio di gestione, accusato di corruzione dalla procura di Messina per l’appalto dell’autostrada Siracusa-Gela. La società era stata fondata nel 1880 e quotata alla Borsa di Milano quattro anni dopo. Rimasta fino al 1970 nelle mani del Vaticano e della Bastogi, il vecchio salotto buono del capitalismo italiano, diventa la vera regina delle opere pubbliche (tra l’altro sarà lei a costruire in quattro anni il ponte Morandi aperto nel 1967) e su di essa si getta come un falco Michele Sindona che la piazza all’Iri, intascando un bel gruzzolo. Privatizzata nel 1997, viene acquistata dal costruttore romano Paolo Bruno. Alla sua morte nel 2013 la proprietà passa alla figlia Isabella, sposata a Duccio Ansaldi che nel 2000 aveva lasciato l’azienda di famiglia passata sotto il controllo del cugino Paolo. Ma il colpo di grazia è venuto dai crediti verso la pubblica amministrazione: 867 milioni di euro a fronte di un patrimonio della società di 214 milioni e a disponibilità liquide di soli 149 milioni. Cantieri bloccati, opere che non finiscono mai, varianti su varianti, pagamenti che non arrivano. Per la Nuvola di Fuksas a Roma la Condotte ha vinto una causa contro la Eur Spa che deve ancora versare 190 milioni di euro.

      


 La famiglia Salini si impegna a investire 50 milioni, la Cdp 300 milioni e le banche 150, altri 100 attesi da un consorzio di garanzia


    

Il 28 settembre tocca alla Astaldi annunciare che intende accedere al concordato preventivo. La situazione finanziaria è precipitata dopo il mancato aumento di capitale da 300 milioni approvato dall’assemblea degli azionisti, quindi dalla famiglia Astaldi, che possiede quasi il 53 per cento del capitale sociale e oltre il 67 per cento dei diritti di voto. La ricapitalizzazione si inseriva all’interno di un più ampio piano di rafforzamento da oltre due miliardi. Il consorzio di garanzia aveva posto come condizione l’arrivo di una offerta vincolante per la cessione da parte di Astaldi della propria quota del 33,3 per cento nella concessione per il terzo ponte sul Bosforo. Ma la crisi della Turchia ha mandato tutto a monte. Erdogan non basta, ci si mette anche Maduro. In Venezuela l’esposizione lorda di Astaldi verso la società pubblica Instituto de Ferrocarriles del Estado era arrivata a 433 milioni. La famiglia Astaldi avrebbe potuto decidere comunque l’aumento di capitale, anche senza consorzio di garanzia, però non se l’è sentita. Nella trappola delle opere pubbliche cade anche la Cooperativa muratori e cementieri di Ravenna. Con una riduzione dei volumi produttivi (da 549 a 514 milioni di euro) e una caduta degli utili, la Cmc si è trovata a corto di denaro liquido, mentre la posizione finanziaria netta è peggiorata di 4,8 milioni rispetto all’anno precedente. Finché la Unicredit, principale banca creditrice non ha chiesto di onorare i debiti. Anche le coop rosse, dunque, alzano bandiera bianca.

   

Lo sblocca cantieri non potrà riparare ai guasti già fatti. Può impedire che se ne facciano altri? Il provvedimento è sotto il tiro incrociato. La Corte dei Conti vede come rischioso l’affidamento diretto per i contratti sotto la soglia dei 200 mila euro. Il servizio bilancio del Senato contesta un problema di coperture delle nomine dei commissari straordinari che dovrebbero sveltire le pratiche. L’Ance, l’associazione dei costruttori, esprime preoccupazione per le misure adottate che non agiscono sulle fasi a monte della gara mentre rischiano di sacrificare principi di correttezza e trasparenza con il modello del “supercommissario” che può derogare a tutte le procedure. La Confidustria denuncia lo stallo delle opere già in corso e chiede l’adozione dei provvedimenti attuativi. I sindacati lamentano che le regole si applicheranno ai bandi futuri non a quelli attualmente in stallo e denunciano la minore trasparenza e il ridimensionamento del ruolo dell’Autorità anticorruzione la quale, in una relazione di 24 pagine, ha messo in discussione l’intero provvedimento. Ma è l’impianto di fondo a lasciare seri dubbio sulla sua efficacia. Altro che deregulation reaganiana. Si era partiti dall’esigenza di sfoltire e semplificare all’insegna dell’efficienza, invece si favorisce la frantumazione delle imprese, un sistema di appalti opaco, una discrezionalità dei comuni non attrezzati ad analizzare davvero la qualità degli investimenti, con il rischio di mance clientelari che scendono giù giù per li rami. Sarebbe, però, un peccato di formalismo giuridico pensare che il vizio fondamentale s’annidi nelle procedure. Le norme possono essere sempre migliorate, ma che dire di Danilo Toninelli? Di fronte a un risultato elettorale in Piemonte chiaramente pro Tav, il ministro delle Infrastrutture replica che per lui non cambia nulla, quindi l’alta velocità non si fa. Orgoglio? No, solo pregiudizio, quello stesso che ha silurato l’industria delle costruzioni e contro il quale dovrà battersi anche il Progetto Italia.

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