ArcelorMittal mette Ilva in cassa integrazione. Avvisare Di Maio
Dopo nove mesi dalla firma dell'accordo per rilevare gli stabilimenti pugliesi, il gruppo siderurgico ricorre al sussidio per i lavoratori e rallenta la produzione. E Taranto sconta i problemi del mercato europeo
Si agitano di nuovo gli animi negli stabilimenti Ilva di Taranto. Dopo nove mesi dall'accordo firmato da Arcelor Mittal per rilevare gli stabilimenti siderurgici, l'azienda fa sapere di dover ricorrere alla cassa integrazione ordinaria per almeno 13 settimane, coinvolgendo circa 1.400 lavoratori al giorno su un organico di 10.700 dipendenti. I motivi, scrive il gruppo indiano, riguardano l'intero comparto europeo dell'acciaio, investito da un ciclo sfavorevole. L'azienda si impegna intanto a procedere con gli investimenti previsti dall'accordo, circa 2,4 miliardi di euro, necessari per portare a compimento il piano industriale e ambientale, su cui i sindacati chiedono garanzie.
“È una decisione difficile – ha detto l'amministratore delegato Matthieu Jehl – ma le condizioni del mercato sono davvero critiche in tutta Europa. Ci tengo a ribadire che sono misure temporanee, l’acciaio è un mercato ciclico”. Domani l'azienda incontrerà i sindacati per formalizzare la procedura. Per gli stabilimenti questo significa fermare le attività del treno nastri, del laminatoio a freddo e dell'impianto di colata continua, come confermano i sindacati al Foglio. Il ministro Luigi Di Maio, che ha gestito il dossier Ilva dopo il termine del mandato di Carlo Calenda, non ha ancora commentato la notizia. “Sono mesi che la Fiom chiede un incontro al Mise per una verifica degli impegni sottoscritti – ha detto in una nota Francesca Re David, segretaria generale Fiom-Cgil – che diventa ancora più urgente alla luce delle decisioni comunicate oggi”.
A maggio ArcelorMittal si era già mossa nella direzione di ridurre la produzione europea di acciaio, che raggiunge circa 90 milioni di tonnellate all'anno. A Taranto la produzione è passata da 6 a 5 tonnellate e altre tre tonnellate sono state tagliate tra gli stabilimenti polacchi e spagnoli nelle Asturie. Come ha spiegato la stessa azienda, i problemi che stanno penalizzando la siderurgia europea sono diventati tanto ingombranti da imporre una revisione dei piani industriali. Scegliere in quali stabilimenti tagliare la produzione è però il nodo centrale su cui i sindacati chiedono spiegazioni e l'intervento del ministero.
In Europa, a preoccupare i produttori di acciaio c'è il calo della domanda interna legato al rallentamento del mercato, tra cui quello dell'automotive, ma anche della manifattura in generale (l'indice Pmi a marzo ha toccato il punto più basso dal maggio 2013). Così, diminuiscono ordini e consumi. A Taranto, in particolare, risulta ancora più difficile recuperare il gap con altri stabilimenti europei che hanno resistito ai cicli sfavorevoli del passato, perché per anni, durante il periodo della gestione commissariale, Ilva ha perso clienti e di conseguenza ordini. Intanto, aumentano le tonnellate di acciaio importate da Cina, Turchia e Ucraina, paesi con standard ambientali capaci di abbattere i costi rispetto agli impianti europei, che contribuiscono ad abbassare i prezzi. Nei primi quattro mesi del 2019 le importazioni di prodotti da coils e lamiere sono aumentate del 51 per cento rispetto allo stesso periodo del 2018. I dazi americani, in questo scenario, sono un ulteriore fattore di distorsione che penalizza i produttori europei. Lunedì più di quaranta amministratori delegati riuniti nella lobby siderurgica Eurofer hanno scritto alla Commissione europea e agli stati membri per informare dello stato di crisi che attraversa il settore: "C'è stato un cambiamento improvviso e particolarmente negativo delle prospettive dell'industria siderurgica europea. Le conseguenze, gravi, sono ora visibili. Sono stati annunciati tagli alla produzione e chiusure degli impianti. Migliaia di posti di lavoro sono a rischio". La Germania ne sa qualcosa. Un mese fa circa, ThyssenKrupp ha annunciato un taglio di quattromila dipendenti più altri duemila fuori dal suo quartier generale, in seguito al fallimento della fusione con Tata. Peggio nel Regno Unito, dove pochi giorni fa la seconda acciaieria del paese ha dichiarato bancarotta. Tra proposte di nazionalizzazioni e di cessione di azioni ai lavoratori, ora il governo s'interroga su come fare per sostenere British Steel, che impiega circa cinque mila dipendenti e produce 2,8 milioni di tonnellate d'acciaio. Il problema sarà pure europeo, ma la gestione delle crisi al momento resta un problema nazionale. Meglio che al ministero dello Sviluppo se ne rendano conto.