Dietro il collasso Fca-Renault, la giusta pretesa di Nissan di contare di più
Non solo statalismo à la francese. Tra le debolezze del marchio francese e le ambizioni di quello italiano, i giapponesi possono riaprire i giochi prendendo un posto di comando
Roma. Non ci sono solo statalismo e politica industriale invadente alla francese all’origine della cancellazione delle trattative per la maggiore fusione nell’Auto degli ultimi tempi. L’accordo tra Fca e Renault prima, per coinvolgere anche Nissan subito dopo, aveva forti punti di efficienza, che d’altra parte erano stati subito riconosciuti da analisti e mercato, ma portava con sé grandi difficoltà realizzative. L’interventismo governativo francese rischia di passare per spiegazione parziale, rispetto a un problema ben maggiore e cioè la storica resistenza ai grandi merger paritari nel settore dell’Auto. Con in più alcuni problemi specifici dell’accordo appena saltato (a Torino dicono che la storia è chiusa, a Parigi provano ancora a fare trapelare la possibilità di un secondo tempo). Il baco era sul lato franco-giapponese: è stata la lunga storia della collaborazione tra Renault e Nissan e poi con l’inserimento di Mitsubishi nel perimetro dell’intesa a rendere impossibile lo sviluppo verso una integrazione estesa a Fca. Da tempo quello che era stato un passo pionieristico verso la condivisione strategica di investimenti, logistica, pratiche produttive, era entrato in una fase di minore efficienza. Sono note le diatribe, che potremmo dire ancora in corso, riguardo ai metodi e al ruolo dell’ormai ex ceo Carlos Ghosn e da tempo la parte giapponese si era irrigidita sulle questioni legate alla proprietà intellettuale e allo sviluppo nelle direzioni innovative del mercato. A un accordo che cominciava a mostrare squilibri non sopportabili si stava tentando di dare un bilanciamento attraverso un altro accordo.
Ovvero quello tra Fca e Renault costruito invece su un rigoroso 50 e 50, pensato su basi paritarie, impostato in modo amichevole tra i brindisi, nei primi giorni, da parte dei rispettivi consigli di amministrazione. Tutto molto sensato, gli analisti di Wall Street, che si sono trovati il dossier davanti, indicavano possibilità cospicue di tagli nei costi per Fca e Renault (li avevano anche quantificati, a beneficio degli investitori azionari) ma ripetevano sempre che ci sarebbero stati problemi di realizzazione pratica.
Insomma, una buona idea, secondo la manualistica del settore, ma, appunto, un po’ astratta. Con un problema in più legato alla debolezza maggiore di Renault rispetto agli altri possibili contraenti. Il gruppo francese è quello con le peggiori aspettative nel breve e medio periodo e con il peggiore posizionamento di mercato, ed è noto che lo stato non è un socio solo storico e silente, ma che si è trovato in prima linea nella fornitura di nuovo capitale. Il rapporto con i giapponesi, come si diceva, andava incrinandosi da tempo, anche per la sensazione di squilibri negli avanzamenti verso l’innovazione sia per l’elettrico, di cui, nelle varie forme, Nissan è capofila mondiale, sia per la guida autonoma. E’ vero che queste sono anche le debolezze di Fca, ma la proiezione americana del gruppo e i volumi produttivi davano agli italo-americani una maggiore forza contrattuale. E allora si arriva semplicemente a un sistema di equazioni incompatibili, senza soluzione, quando si prova a tenere assieme tre rapporti separati: quello Fca-Renault, quello Renault-Nissan e quello con i tre possibili contraenti.
Da Torino, ripetiamo, dicono che la storia è chiusa. Ma, ovviamente, non si può mai escludere un ripensamento. Certo non alle condizioni appena saltate. Il colpo di scena capace di riaprire la questione (mentre ripartono voci su altri possibili merger, compreso quello detto e stradetto e che vedrebbe Psa tra i possibili partner di Fca) sarebbe quello di un maggiore coinvolgimento proprio della parte giapponese.
Con la ripresa dell’iniziativa grazie a un colpo di teatro con cui si darebbe un ruolo di primo piano proprio a manager di casa Nissan – magari il posto di amministratore delegato accomoderebbe la diplomazia del colosso transcontinentale. Un riequilibrio dell’accordo sghembo è sempre possibile, ma occorrono molta buona volontà e fantasia.