Blitz a Palazzo Koch

Fabio Sabatini*

L’attacco di Bagnai & Co. all’indipendenza di Bankitalia è un’altra premessa dell’Italexit

Il governo si accinge a riformare la governance della Banca d’Italia. L’annuncio di Alberto Bagnai nell’intervista al Corriere della Sera venerdì scorso è passato quasi inosservato (con l’unica eccezione delle denunce social di pochi economisti attenti alle mosse del governo). La notizia è stata poi rilanciata da Reuters, nell’indifferenza generale dei media  e dell’opposizione. Eppure, in una fase in cui i leader della maggioranza discettano continuamente di emissione di monete illegali e di uscita dall’euro, ogni limitazione dell’autonomia della banca centrale dovrebbe destare preoccupazione. 

 

Secondo il  disegno di legge, depositato dalla maggioranza in Commissione Finanze e Tesoro, tre membri del direttorio, compreso il governatore, saranno scelti dal presidente del Consiglio di concerto con il governo. Altri due saranno nominati rispettivamente dalla Camera e dal Senato a maggioranza assoluta. Inoltre, ogni modifica dello statuto della Banca d’Italia sarà in futuro decisa dal Parlamento. La riforma sembra il primo passo del ricongiungimento tra Tesoro e Banca d’Italia dopo il “divorzio” del 1981. All’epoca, il divorzio ebbe lo scopo di ripristinare una disciplina fiscale dopo anni di monetizzazione allegra del deficit. Dal 1975 la banca centrale si era impegnata a garantire il successo delle aste dei titoli di stato, stampando moneta per comprare le obbligazioni rimaste invendute. In questo modo il costo della spesa in deficit e dell'aumento del debito fu scaricato sui cittadini, che subirono un prelievo forzoso, nascosto e regressivo sotto forma di inflazione, che raggiunse il 21 per cento nel 1980, e sulla lira, che tra il 1975 e il 1980 si svalutò del 40 per cento rispetto al dollaro. Forti di tale meccanismo, i governi si indebitarono pesantemente. Con il divorzio, che incontrò l’ostilità di tutti i partiti, la banca centrale fu liberata dall’obbligo di comprare i titoli di stato e acquisì autonomia nelle scelte di politica monetaria. Da quel momento i governi si confrontano con investitori “veri” per collocare i titoli con cui finanziare i deficit di bilancio. Ciò nonostante, per tutti gli anni Ottanta l’Italia continuò a chiudere i bilanci con saldi primari negativi, diversamente dalle altre grandi economie europee, portando il rapporto tra debito e pil dal 60 per cento del 1980 al 100 per cento del 1990.

 

Indipendentemente dall’esito dell’iniziativa, la sensazione è che Lega e M5s, inclini alle spese allegre almeno quanto il pentapartito degli anni Ottanta, vedano nell’assoggettamento della Banca d’Italia un nodo cruciale del proprio piano di espansione fiscale fuori dalle regole e dalle istituzioni europee. Se l’Italia uscirà dall’euro come ripetutamente auspicato dai consiglieri economici di Salvini, il governo avrà bisogno di finanziare la spesa in deficit senza passare per il mercato, poiché a causa della ridenominazione del debito i nostri titoli saranno ormai indesiderabile spazzatura. Sarà quindi essenziale che il governo possa imporre alla banca centrale l’acquisto dei titoli di stato mediante l’emissione di nuove lire. Ogni volta che proviamo a unire i puntini delle dichiarazioni e delle azioni degli economisti della Lega emerge sempre la stessa figura, Italexit. Lo scenario, impensabile fino a poco più di un anno fa, è ora meno improbabile di quanto si possa pensare. Tutto dipende dalla determinazione del governo a proseguire sulla rotta che ha tracciato, ed eventualmente dall’opposizione che troverà sulla sua strada.

 

*professore Associato di Politica Economica presso la Sapienza Università di Roma, Fellow presso l’Institute for the Study of Labor di Bonn e Chair dello European PhD in Socio-Economic and Statistical Studies. 

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