Nouriel Roubini, docente alla New York University ed economista molto influente, prevede per il prossimo anno ancora crisi e recessione (Foto LaPresse)

Son tornate le cassandre

Stefano Cingolani

Vedono sciagure e cataclismi, ma gli economisti che predicono il futuro non hanno mai avuto grande fortuna

Tremate, tremate le cassandre son tornate. Guidano il carosello magico Nouriel Roubini e Brunello Rosa: da tempo avvertono che si sta preparando un’altra tempesta perfetta e nel 2020 verrà il fatidico momento in cui si affronteranno le forze del male e del bene. A dieci anni dal fallimento della Lehman Brothers, nel settembre scorso, hanno messo insieme un elenco di dieci punti di crisi e adesso dicono che nove sono ancora attuali, oggi più di prima. Non è detto che sia così e molte cose stanno cambiando. Nulla è scritto, nulla è nettamente prevedibile, troppe sono le variabili in corso, soprattutto quando la politica prende il sopravvento e la volontà sfida la realtà.

 

Tuttavia, Roubini e Rosa non sono certo gli unici a gridare al lupo. Un allarme è arrivato anche da Mario Draghi che si è distinto in questi otto anni per aver saputo domare uccelli rapaci e iene affamate ogni volta che s’avventavano sul dolorante corpaccione dell’euro. Jerome Powell, presidente (forse ancora per poco) della Federal Reserve, dice che la crescita è a rischio anche negli Stati Uniti. L’analista e futurologo Simon Ward guarda all’allineamento dei cicli economici come gli astrologi guardano ai pianeti e dice che stiamo entrando in una fase lunga di rallentamento che porterà a una nuova grande crisi, anche se non prima del 2027. Ultimo, ma non certo per importanza, ci si è messo anche Ciriaco De Mita che alla bell’età di 91 anni profetizza: “In Italia sta per arrivare un’altra catastrofe, vedo troppi segnali di un diluvio imminente”. Quali sono le inarrestabili spinte che ci conducono verso la pianura di Armageddon? Sono parecchie e di diversa portata, ma tra tutte la più pericolosa è il protezionismo nazionalista. Se dieci anni fa abbiamo assistito alla crisi da globalizzazione, nel prossimo futuro avremo la crisi da populismo.

 

Roubini si è fatto la fama di aver previsto il grande crack del 2007-2008. Poi per la verità non ci ha più azzeccato. Gli economisti che vogliono fare gli aruspici, del resto, non hanno grande fortuna. Ha fatto scuola la candida domanda rivolta allora dalla regina Elisabetta alla creme degli studiosi britannici: ma come avete potuto non vedere e non capire? Rosa è meno noto in Italia, ma non all’estero. Ha fondato la società di ricerche R&R, Roubini & Rosa Associates ed è lui che la gestisce. Meno esposto del suo collega ha cominciato a essere ospite delle reti televisive italiane ed è entrato nel circo dei guru mediatico-economici anche nel suo paese d’origine. Nato a Firenze, si è perfezionato a Londra dove è rimasto e vive ormai come cittadino britannico. Tre anni fa, ospite di Limes ha schematizzato le tre fasi che portano a una nuova guerra mondiale: la prima è la sfida per le risorse, poi quella per la supremazia tecnologica, infine la resa dei conti militare. Adesso siamo arrivati al secondo passo con lo scontro aperto tra Stati Uniti e Cina, ma anche con l’irruzione della Russia abilissima finora nella fase distruttiva e pronta a battersi sul fronte più ampio, se non proprio testa a testa con l’America come ha minacciato Vladimir Putin. Altro che gufi, altro che cassandre, qui siamo in pieno war game.

  

Se dieci anni fa abbiamo assistito alla crisi da globalizzazione, nel prossimo futuro avremo la crisi da populismo. Segnali paurosi

Donald Trump dice che nessuno ha fatto meglio di lui dopo George Washington (chissà se crede davvero alle sue iperboliche sparate), per Roubini & Rosa invece, proprio lui è il primo fattore di crisi, cominciando dall’economia interna non solo da quella estera sulla quale The Donald getta sempre la responsabilità di tutti i guai. La fine degli stimoli fiscali, i dazi, il surriscaldamento di Wall Street gettano grandi incognite proprio dentro gli Stati Uniti. Il taglio alle imposte che ha dato una spinta al pil americano, e rappresenta il modello al quale si è affezionato Matteo Salvini, sta esaurendo i suoi effetti e i provvedimenti scadranno nel 2020. Già, proprio nell’anno in cui Trump si gioca la rielezione: è facile prevedere che farà una doppia pressione, sul Congresso e sulla banca centrale, affinché allentino le briglie. Con la Federal Reserve è ai ferri corti, tanto che si dice possa cadere la testa di Powell, nominato da Trump nel febbraio 2018 al posto di Janet Yellen. Sembra che il presidente americano abbia consultato i legali della Casa Bianca per capire le possibili conseguenze di un licenziamento in tronco. La Banca centrale per ora mantiene i tassi d’interesse invariati tra il 2,25 e il 2,5 per cento. Ma in presenza di una Bce intenzionata, come ha annunciato Draghi, ad abbassare ancora i tassi nonostante siano sottozero, e a rilanciare il quantitative easing, mentre la Banca del Giappone continua a pompare moneta, il divario con l’area del dollaro si farà rilevante. Le differenze di rendimento tra tassi americani, europei e giapponesi diventeranno così ampie che il capitale semplicemente inonderà i fondi che investono nel mercato monetario statunitense, privando il resto del mondo della principale valuta di finanziamento globale. Visto l’accumulo di debito denominato in dollari nei mercati emergenti, ciò darà fuoco alle polveri.

    

Il presidente della Fed, Jerome Powell (Foto LaPrese)


 

La pressione al ribasso sul renminbi, con la valuta cinese che si avvicina a un cambio di 7 con il dollaro, alimenta le tensioni geopolitiche. I mercati in tal caso sconterebbero un calo degli utili generati all’estero dalle società statunitensi per via della forza del dollaro. E la Banca centrale americana dovrebbe cambiare linea e ridurre il costo del denaro, riportando il dollaro in linea con euro e yen, proprio come vuole Trump. Forse sarà troppo tardi perché nel frattempo un terremoto finanziario avrà già scosso i mercati. Il timing, il senso del tempo, è determinante.

 

Per Nouriel Roubini e Brunello Rosa è Donald Trump il primo fattore di crisi. L’economia interna americana e la guerra delle valute

I conflitti tra la Casa Bianca, Pechino e Bruxelles sono destinati a moltiplicarsi provocando una crescita più lenta e una inflazione più elevata, torna così lo spettro della stagflazione che tanto ha agitato gli anni ’70 e ’80 del secolo scorso. La stretta dell’Amministrazione americana sugli investimenti e i trasferimenti di tecnologie potrebbe spezzare le catene delle forniture industriali, si pensi alla Apple e ai suoi smartphone che incorporano componenti giapponesi, sud coreane, italiane persino, e vengono montati in Cina. Il muro fisico e i muri politici contro gli immigrati restringeranno la forza lavoro necessaria a sostenere lo sviluppo a fronte di un invecchiamento della popolazione. È un effetto a più lungo termine, ma il suo impatto comincerà a vedersi presto. Anche la svolta di Trump sull’ambiente è destinata a colpire la green economy senza per questo rafforzare la vecchia industria che soffre di bassa efficienza e ritardo tecnologico. Questo dicono le cassandre.

 

Tutti i colli di bottiglia dal lato dell’offerta si sommano alle difficoltà di gestire la domanda aggregata in un mondo composto da blocchi economico-politici in conflitto, non più solo in competizione tra loro. Dieci anni fa la Cina e i paesi in via di sviluppo ebbero un ruolo fondamentale nel favorire la ripresa. Oggi l’economia cinese rallenta anche per smaltire l’eccesso di capacità produttiva e gli enormi debiti nascosti nei bilanci delle amministrazioni periferiche e delle banche a livello locale. La crisi del Brasile ha tolto dal tavolo uno dei paesi a crescita più rapida, il collasso del Venezuela getta ombre oscure sull’intera America meridionale, mettendo sotto stress le imprese multinazionali che avevano investito in modo massiccio durante gli ultimi anni. E poi c’è l’Europa con la sua bassa crescita, i suoi squilibri interni crescenti, le banche ancora piene di partite ad alto rischio, siano esse titoli di stato, npl o derivati, l’ondata populista che mina le istituzioni, mentre rallenta in modo preoccupante la locomotiva tedesca.

 

Il triste catalogo di sciagure è contraddetto da un boom di Wall Street che sembra inarrestabile. Ma per Roubini & Rosa anche questo è un campanello d’allarme, perché il rapporto tra profitti e prezzi di mercato è superiore del 50 per cento rispetto alla media storica, segno inequivocabile che sta arrivando una forte correzione, sperando che non diventi un vero crack, un baratro verso il quale può condurci l’uso cieco degli scambi innescati da algoritmi: “Una volta che la tempesta perfetta si manifesterà, mancheranno gli strumenti per risolverla”, sia quelli economici sia quelli politici, sostiene Mister Fine-del-mondo. “Lo spazio di uno stimolo fiscale è già limitato dal debito pubblico massiccio. La possibilità di politiche monetarie più anticonvenzionali sarà ridotta dai bilanci gonfiati e dall’assenza di spazi per tagliare i tassi. I bailout nel settore finanziario saranno intollerabili in quei paesi dominati dai sovranisti e da governi a un passo dall’insolvenza”. E qui arriva l’Italia: “Politiche improntate al populismo in paesi come l’Italia potrebbero tradursi in dinamiche del debito insostenibili dentro l’Eurozona. Il circolo vizioso tra i debiti pubblici e le banche che detengono i relativi titoli di Stato accentuerà il problema esistenziale di una unione monetaria incompleta, senza un’adeguata condivisione del rischio. In queste condizioni, un’altra crisi globale potrebbe portare l’Italia e altri paesi a uscire dall’euro”.

 

Draghi che per vocazione e per professione è un anti-catastrofista, non condivide questa analisi e nega che gli spazi di manovra si siano ristretti. La Fed potrebbe rispondere alle pressioni presidenziali allentando le redini e magari riducendo i tassi. In questo modo cambiano due variabili determinanti, ma non le tendenze di lungo periodo – a sostenerlo è Simon Ward, consigliere economico di Janus Henderson, che basa la propria previsione sullo studio dei tre grandi cicli dell’economia: quello delle scorte industriali, quello degli investimenti delle imprese e quello del settore immobiliare. La durata di queste fasi economiche è infatti differente: relativamente più breve quella delle scorte (ciclo di Kitchin, 3-5 anni), di media durata quella degli investimenti (ciclo di Juglar, 7-11 anni) e decisamente lunga lena quello immobiliare (ciclo di Kuznets, 15-25 anni).

 

Soltanto quando il rallentamento è sincronizzato si verificano le crisi finanziarie più profonde: così è avvenuto per esempio nel 1990-91 e ovviamente nel 2008-2009, quando le conseguenze sono state in effetti piuttosto disastrose. La prossima coincidenza si potrebbe appunto verificare nel 2027 e nel frattempo, secondo Ward, potremo assistere “soltanto” a rallentamenti dei cicli delle scorte e degli investimenti , magari anche recessioni localizzate, ma certo niente di paragonabile agli sconvolgimenti post-Lehman. Ward sembra un astrologo che aspetta l’allineamento dei pianeti per preconizzare il sollevamento delle maree e tempeste magnetiche a profusione. Anche per lui l’anno prossimo sarà difficile, perché nella seconda metà del 2019, sono destinati ad allinearsi due dei fattori di crisi, cioè i cicli delle scorte e degli investimenti. Più c’è l’incognita Brexit. “L’attuale frenata sarà sicuramente più marcata rispetto a quella sperimentata nel 2012 e nel 2016 e potrebbe trasformarsi in recessione – avverte infatti l’economista britannico – ma i dati in nostro possesso fino a questo momento non sono così negativi da rendere questo lo scenario centrale: sarà probabilmente necessario un ulteriore shock esterno, come per esempio una escalation della guerra commerciale fra America e Cina o una Brexit senza accordo, per renderla inevitabile”.

  

Lo studio dei tre grandi cicli dell’economia e la previsione di Simon Ward: la prossima crisi profonda ci sarà nel 2027

E qui torniamo al fattore principale, quello politico, il più imprevedibile, perché la politica è vicina all’arte e lontana dalle scienze esatte. La Banca centrale europea ha due opzioni: ridurre i tassi che sono già a meno 0,40 per cento e/o riprendere ad acquistare i titoli. Nel primo caso – scrive Mario Seminerio – c’è il rischio che la misura danneggi le banche commerciali, erodendo la loro già stressata redditività. Ciò potrebbe tradursi in una stretta al credito, per recuperare margini. Lo stesso Draghi ha segnalato, di recente, che in caso di ulteriori tagli dei tassi potrebbero essere adottate misure per proteggere la redditività delle banche. Diciamo che, in caso di tassi ancor più negativi, le banche commerciali potrebbero iniziare a traslare i costi su conti e depositi al dettaglio, rendendone i tassi negativi anziché nulli. L’acquisto di titoli di stato si scontra con un doppio limite: la Bce non può eccedere il 33 per cento dello stock di titoli di stato di un paese, ed il 33 per cento di una singola emissione.

 

E l’Italia? Le parole di Draghi hanno fatto scendere lo spread che in ogni caso resta vicino al 2,5 per cento mente il Portogallo è a 0,3 per cento e la Spagna a 0,45, con i titoli francesi sostanzialmente allineati al Bund, il cui rendimento è a questo punto addirittura negativo.

  

Il triste catalogo di sciagure è contraddetto da un boom di Wall Street. Ma per loro anche questo è un campanello d’allarme

Insomma, un nuovo Quantitative easing andrà a vantaggio degli altri paesi più che dell’Italia, la quale rischia l’effetto palla di neve che si produce quando il costo medio del debito supera la crescita nominale del prodotto lordo. Secondo le stime ciò avverrà già quest’anno, con un pil nominale che, se tutto va bene, sale a un punto e mezzo, e un costo del debito che rischia di essere il doppio. Un pericolo riconosciuto anche da Paolo Savona, il quale vuole che il risparmio italiano vada a finanziare il debito pubblico anziché ad alimentare la Borsa e gli investimenti privati. Curioso atteggiamento per un presidente della Consob, ma forse si spiega con il fatto che Savona l’economista teme un default mentre Savona il samurai sovranista sostiene che il debito può arrivare al 200 per cento e oltre come il Giappone. Proprio questo è il pericolo generato dall’insana passione per i debiti che contagia tutti i nazional-populisti.

 

“Arricchitevi”, dicevano i liberisti degli anni 80 e 90, spingendo i risparmiatori a comprare azioni e a giocare in Borsa. Hanno generato vent’anni di sviluppo come non s’era mai visto. Certo, poi è arrivata la grande crisi, ma la vulgata secondo la quale sia stata colpa dei selvaggi adoratori del mercato nasconde le colpe di chi in occidente quella ricchezza non l’ha saputa utilizzare. “Indebitatevi”, dicono i populisti del nuovo Millennio, e questa volta finiremo per vivere una nuova crisi senza aver vissuto un altro lungo e prospero ventennio di sviluppo.

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