Il paese rischia se continuerà a giocare con l'Italexit. Intervista a Ignazio Visco

“Se si alimenta la paura che la politica intenda staccarci dall’Europa, beh, indubbiamente questa paura i mercati la scontano e si assicurano contro questo rischio”. Chiacchierata con il governatore di Bankitalia

Claudio Cerasa

Sabato scorso, alla Festa sull’innovazione organizzata dal Foglio a Venezia, abbiamo avuto la possibilità di dialogare per una buona mezz’ora con il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco. Con Visco abbiamo parlato dell’economia italiana, della sua traiettoria, dei suoi rischi, dei suoi punti di forza, dei suoi punti di debolezza, e abbiamo cercato di capire, attraverso le sue parole, cos’è che frena l’innovazione in Italia e cosa si potrebbe fare per liberare al meglio le nostre energie. La nostra conversazione con Visco comincia da un tema cruciale, fondamentale per provare a capire la ragione per cui il futuro oggi è considerato da molti più una fonte di rischi che di opportunità. Al governatore chiediamo in che modo spiegherebbe a un giovane per quale motivo la robotizzazione è un alleato e non una grande minaccia per il futuro del lavoro. Visco la mette così. “Un paio di anni fa scrissi un piccolo libro che si intitolava ‘Perché i tempi stanno cambiando’ ricordando una canzone di Bob Dylan. In quel libro si spiegava perché è necessario cogliere le opportunità senza avere paura del cambiamento. E’ ovvio però che nel mondo c’è paura del cambiamento. E’ ovvio che in soli dieci anni il mondo è cambiato: oggi vado in giro con questo (indica un tablet, ndr) in cui c’è tutto, e dieci anni fa non era pensabile. C’è una necessità di usufruire del cambiamento e disporre di conoscenze, competenze e attitudini che qui da noi mancano. Ma è una cosa che è sempre avvenuta. David Ricardo più di due secoli fa aveva scritto un capitolo della sua opera principale che si intitolava ‘Delle macchine’ in cui discuteva della paura che le macchine avrebbero svolto i lavori degli umani; questa è stata anche l’oggetto della rivolta dei luddisti. Eppure il cambiamento tecnologico ha sempre portato più lavoro, non meno lavoro. La differenza è che oggi tutto avviene molto in fretta mentre la capacità di adeguare le nostre competenze probabilmente richiede del tempo, ma il tempo non è dalla nostra parte”.

 

In che senso? “In Italia anche il livello di digitalizzazione dell’economia è molto basso: nelle mie Considerazioni finali, il discorso che tengo alla fine di maggio in occasione della presentazione della Relazione annuale della Banca d’Italia, ho osservato che su un totale del valore aggiunto prodotto ogni anno solo il 5 per cento proviene da settori digitalizzati, in Germania è l’otto per cento. Sulla base di un indice che mette insieme varie caratteristiche di un’economia moderna ma tecnologicamente avanzata siamo agli ultimi posti con la Romania, la Grecia e la Bulgaria; ai primi posti ci sono la Svezia, la Danimarca e l’Olanda; e in mezzo ci sono Francia e Germania. Questa è una sfida, che però dobbiamo raccogliere. Se non ci attrezziamo il futuro non sarà facile. Abbiamo un ritardo per quanto riguarda il capitale umano, la diffusione di competenze tra giovani e adulti rispetto al resto del mondo. Altrove l’adeguamento è stato molto rapido, e si vede dai tassi di disoccupazione: in Giappone la disoccupazione è vicina al 2 per cento, negli Stati Uniti al 3, da noi è oltre il 10”.

 

“Indubbiamente c’è una difficoltà, che è ancora più grave visto che noi siamo un’impresa manifatturiera che richiede di utilizzare delle tecnologie moderne, che siano i robot o la tecnologia artificiale, che sembra una cosa terribile ma non lo è. Un libro recente del Direttore dell’Iit di Genova, Roberto Cingolani, sottolinea che i robot – ‘l’altra specie’ – sono disegnati da noi e lavorano per noi, l’intelligenza artificiale è stata creata da noi perché possiamo servircene al meglio. Scompariranno i lavori? Ce ne saranno di nuovi, l’importante è investire nelle nostre capacità, e noi siamo ancora molto indietro da questo punto di vista. C’è da dire che la paura della disoccupazione tecnologica è di lunga data. Keynes ha scritto un bellissimo saggio circa 90 anni fa dicendo che la tecnologia ci avrebbe consentito di stare meglio e lavorare di meno. Su quest’ultimo punto non ci ha colto molto, però se pensiamo al benessere economico ha avuto ragione. Il rischio di oggi, se vogliamo, è distributivo: ci sono rischi di concentrazione tecnologica in grandi imprese multinazionali e questo può portare a una distribuzione del reddito molto sbilanciata. C’è un rischio che proviene dal tipo di uso che si fa delle tecnologie: sono rischi per la privacy e per la proprietà intellettuale. Ma è inevitabile cogliere le opportunità: abbiamo parecchia strada da fare che altri hanno già fatto. Dobbiamo avere una visione del lungo periodo: non essere solo attenti ai guai congiunturali che ci affliggono ma anche ai benefici che possono derivare dagli investimenti privati e pubblici nelle nuove tecnologie”.

  

Chiediamo al governatore Visco se esista o no a suo avviso una correlazione tra paesi che hanno un debito pubblico importante e paesi che non riescono a scommettere sull’innovazione. In fondo in entrambi i casi si parla dello stesso tema: non preoccuparsi di chi viene dopo. “Io non credo – dice Visco – che ci sia una correlazione tra il livello del debito pubblico e la capacità di un’economia di rispondere a queste sfide. Il vincolo del debito pubblico ha molte dimensioni: coinvolge la capacità di programmare investimenti nelle infrastrutture pubbliche e la connessa difficoltà a intervenire per stabilizzare l’economia di fronte agli choc. Il problema è un altro. L’economia richiede un grado di fiducia e di visione futura molto più elevato di oggi, non solo da parte del settore pubblico. Richiede di porre attenzione ai cambiamenti demografici, ai rischi climatici e alla necessità di investire nella tecnologia. Richiede di non vivere continuamente sotto l’incubo di non riuscire a contenere i disavanzi e che quindi poi i mercati si preoccupino. I mercati non sono un’entità astratta, sono molti risparmiatori che investono il proprio denaro in tanti modi, per esempio acquistando titoli dello stato italiano nella presunzione che ovviamente questo debito sarà onorato. Se il rischio che grava sul debito è percepito come eccessivo allora si chiedono degli interessi alti per compensarlo. C’è una parte di difficoltà legata alla visione e al rischio di fiducia a essa connesso ma non credo ci sia una correlazione uno a uno tra il debito e la capacità di innovare”.

 

Fiducia è una parola che Ignazio Visco usa spesso nei suoi discorsi. Se il governatore di Bankitalia avesse un termometro per misurare la fiducia che esiste oggi nei confronti dell’Italia, cosa vedrebbe in quel termometro? “La fiducia è anche la capacità di rispettare gli obiettivi, e una volta che si fissano i parametri è bene non cambiarli. Questo vuol dire avere una politica stabile che abbia la capacità di affrontare i problemi veri di un paese che invecchia. Quest’anno ho deciso di scrivere le Considerazioni finali puntando più su questioni strutturali che non su questioni congiunturali. Tra le questioni strutturali c’è il ritardo tecnologico ma c’è anche un problema demografico. Nei prossimi dieci anni, senza considerare il possibile contributo dell’immigrazione, ci saranno 3,5 milioni di persone in meno in età da lavoro, compresa tra 20 e 65 anni. Qui si può dire che si può lavorare anche oltre. Il punto rilevante è che nei successivi 15 anni ce ne saranno altri 7 milioni in meno, e questo è un effetto demografico enorme che va affrontato. Fiducia vuol dire spiegare come si affrontano i problemi di crescita legati alla demografia e alla mancanza di sforzi sulla tecnologia. Ma vuol dire anche valorizzare i tanti punti di forza dell’Italia: è un’economia industriale avanzata e ha recuperato in fretta da un arresto nella sua capacità di competere con il resto del mondo. La differenza tra quanto esportiamo e quanto importiamo è positiva, il debito nei confronti dell’estero è stato pressoché annullato e la crescita delle esportazioni è maggiore di tanti dei nostri partner. Il debito delle famiglie è basso, pari al 40 per cento del pil, la media europea è del 60 per cento; il debito delle imprese è del 70 per cento contro una media europea del 110. Però abbiamo un debito pubblico molto alto rispetto alla capacità di crescita, abbiamo sopperito a questo problema grazie all’accumulazione di risparmio in Italia dal Dopoguerra in poi. La ricchezza delle famiglie è più alta della media europea: il 60 per cento è costituita da immobili e il 40 per cento è ricchezza finanziaria, investita anche, direttamente e indirettamente, in titoli del debito pubblico. Proprio per questo la fiducia nel debito pubblico va rilanciata”.

 

Nell’ultimo anno, facciamo notare a Visco, l’Italia è stata un paese che, osservando lo spread, ha però ottenuto una perdita di fiducia rispetto a molti altri paesi. Quanto pesa questa perdita di fiducia su una crescita che oggi è quasi pari a zero? “Questo è un problema complesso. Vi è un effetto sulla fiducia nel debito pubblico che viene dalla capacità di crescita dell’economia. Se si percepisce che l’economia non riesce a crescere, allora affiora il dubbio che il debito non sia ripagato o che venga ripagato in un’altra valuta. Inoltre, sicuramente c’è un impatto sulla crescita quando i tassi di interesse sono così più alti rispetto alla media europea. Se nell’emissione di titoli pubblici paghiamo due punti e mezzo in più di quanto si paga in Germania questo si inserirà gradualmente in tutti i meccanismi con cui si concede credito a livello privato, riguardino essi direttamente imprese che vanno sul mercato o banche che concedono prestiti alle imprese. Questo meccanismo rallenta la capacità di crescita dell’economia, ha effetti sugli investimenti. C’è una relazione tra lo spread e il grado di fiducia che si trova negli indicatori che vengono rilevati. Poi bisogna capire di che tipo di fiducia stiamo parlando: lo spread misura due variabili. Una variabile è il rischio che il debito pubblico non sia ripagato, rischio che credo sia zero. Poi c’è una seconda variabile. A maggio ho chiuso le mie Considerazioni finali con una piccola nota sull’importanza delle parole, di quello che si dice e di come lo si dice. Se si alimenta, con dichiarazioni e osservazioni, la paura che molti di noi possono avere che la politica intenda staccarci dall’Europa, beh, indubbiamente questa paura i mercati la scontano e si assicurano contro questo rischio. E assicurarsi contro questo rischio significa avere tassi di interesse più alti di vari punti base. Quindi in questo senso la sfiducia va ridotta, non inseguendo per motivi vari obiettivi che sono dannosi. Dall’altra parte va enfatizzata la capacità di crescita dell’economia, e attraverso gli investimenti si riesce ad abbassare la componente di assicurazione che viene richiesta sulla carta”.

 

La nostra conversazione con il governatore volge verso il termine e prima di concludere abbiamo tempo ancora per qualche domanda. La prima domanda riguarda libra, la moneta virtuale di Facebook, e al governatore chiediamo quali sono i rischi e quali sono le opportunità all’interno di una rivoluzione che potrebbe cambiare alcuni equilibri del sistema monetario. “Le banche centrali stanno studiando queste questioni da parecchio tempo. Facebook propone di mettere a disposizione dei suoi clienti una moneta virtuale con la quale regolare le transazioni, e questo è qualcosa di complementare rispetto alla moneta emessa dagli stati. La differenza con le cripto-attività come bitcoin è che dovrebbe avere un valore stabile perché dovrebbe essere indicizzata a un paniere di valute a corso legale come l’euro o il dollaro. Ci sono problemi su dimensioni diverse. Il primo riguarda la sicurezza digitale e la privacy, la difficoltà di garantire la privacy di ciascuno di noi. Vi sono poi rischi importantissimi legati al riciclaggio e al finanziamento del terrorismo. Su questo occorre un’attenzione particolare da parte di autorità diverse da quelle finanziarie. Che siano l’intelligence o le autorità anti-money laundering questo deve essere uno sforzo cooperativo. Vi è poi un problema di stabilità finanziaria, che va studiato nelle sue componenti perché non abbiamo ben chiaro che tipo di depositi saranno associati alle valute virtuali di pagamento come questa, e da dove verranno quei depositi; c’è quindi un problema di relazione tra questo nuovo sistema di intermediazione e il vecchio sistema di intermediazione delle banche. Ma i rischi sono sempre gli stessi anche se sotto forme diverse: rischi di mercato, insolvenza e rischi di volatilità, che andranno visti e regolati con molta attenzione. Noi nel Financial Stability Board, un comitato globale che si occupa di rischi di stabilità finanziaria, guardiamo ai rischi associati al comportamento delle grandi banche ma anche a quello che veniva definito un tempo shadow banking, che adesso si chiama settore finanziario non bancario. Se con quella valuta si effettuassero prestiti o altre attività creditizie si rientrerebbe nella regolamentazione delle società finanziarie. Ma l’innovazione nel campo finanziario c’è sempre stata e non deve far paura: dalle lettere di cambio dei banchieri fiorentini che hanno permesso una globalizzazione ai tempi del Rinascimento fino al microcredito di qualche anno fa o ai prodotti derivati che hanno causato problemi ma hanno un’applicazione molto utile”.

 

Arrivati a questo punto della nostra chiacchierata mostriamo al governatore i minibot pubblicati dal Foglio qualche giorno fa, e disegnati da Makkox, raffiguranti Luciano Moggi, Wanna Marchi e Francesco Schettino. Al governatore non chiediamo dei minibot, sui quali si è già espresso, ma chiediamo per quale ragione difendere l’autonomia di Bankitalia non sia un concetto astratto ma è parte della stabilità di un sistema economico come quello italiano. “Carlo Azeglio Ciampi sosteneva che ancor più dell’indipendenza è importante l’autonomia di giudizio, che si ottiene se chi fa parte della Banca d’Italia è libero di esprimere il proprio giudizio. Le premesse delle proposte che ci coinvolgono vanno affrontate con serietà e attenzione. Credo che la premessa in base alla quale la Banca centrale è auto-referenziale sia sbagliata. La Banca d’Italia produce ogni anno – rispondendo a doveri di trasparenza e obblighi di legge – una Relazione sulla gestione e l’attività propria, un libro molto dettagliato. In tantissimi campi non c’è contezza di tutto ciò che fa la Banca centrale. Sicuramente conduciamo la politica monetaria anche se non da soli. Vado a Francoforte per due giorni ogni due settimane, ed è un segno di come la politica monetaria sia una responsabilità condivisa. La politica monetaria è indipendente ma deve dare conto di quello che fa, per evitare che sia soggetta alle pressioni politiche del momento, che possono avere conseguenze molto gravi per tante variabili tra cui sicuramente l’inflazione. Alcuni dicono che dobbiamo avere come modello la Bundesbank, che è un modello interessante anche se ha un campo di operatività più ridotto rispetto al nostro. Anche a causa delle interferenze che si sono verificate negli anni Venti e negli anni Trenta, la Costituzione tedesca garantisce oggi la totale indipendenza delle sue azioni dal sistema politico. Però ci sono tanti altri compiti che svolgiamo come Banca centrale: la Banca d’Italia garantisce e produce le infrastrutture di pagamento, anche quelle di cui abbiamo parlato poco fa, e le sorveglia. Fa sicuramente un’attività di vigilanza e di sorveglianza ma anche di regolamentazione ad ampio spettro su tutti gli intermediari finanziari, e non solo sulle banche. Tra le premesse delle proposte di cui oggi si legge ci sono anche i problemi sulle banche in Italia, ma io credo che se fossimo stati meno indipendenti questi problemi sarebbero stati più gravi. L’intermediazione bancaria ha risentito in Italia della crisi gravissima che ha colpito l’intera economia e che si è associata in alcuni casi, io credo ridotti ma gravi, a comportamenti sicuramente imprudenti e a volte illeciti di banchieri e di banche. Ma io non credo, e l’ho spiegato in dodici ore di intervento in Commissione di inchiesta, che sia stata colpa della carenza di attenzione legata all’eccesso di autonomia, autoreferenzialità e indipendenza della Banca d’Italia”.

 

Tempo fa, il giorno dopo la relazione di maggio del governatore di Bankitalia, abbiamo fatto un piccolo esperimento. Abbiamo notato che nella relazione del 2018 Visco ha parlato di “rischi” 25 volte, che nella relazione del 2017 Visco ha parlato di “rischi” 23 volte, che nella relazione del 2019 Visco ha parlato di “rischi” 44 volte. Il governatore, anche nel corso della nostra chiacchierata, non ha mai dimenticato di mettere in rilievo quali sono i punti di forza del nostro paese. Ma se dovessimo mettere in rilievo oggi quello che è il principale rischio dell’Italia, su cosa si concentrerebbe Ignazio Visco? “Ancor più di come ci si esprime a livello politico credo che il rischio sia quello di non guardare in avanti e di non cercare di affrontare oggi, come dice anche il titolo di questo incontro, il fatto che il futuro, al di là delle difficoltà, porta con sé anche molte opportunità. Per cogliere queste opportunità bisogna investire in noi stessi, non bisogna chiedere soltanto allo stato di fare qualcosa per noi. Il rischio è che ci si dimentichi di chi sta per entrare nel mondo del lavoro, dei tanti giovani che non studiano, che non lavorano e che forse sono sempre più emarginati. Quindi il nostro sforzo deve essere quello di riprenderli e di farli diventare parte di una collettività nazionale orientata verso il futuro”.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.