Il M5s è in difficoltà e riemerge la cultura anti impresa di Di Maio
La telenovela sulla revoca o meno, sulla nazionalizzazione ma anche no, delle concessioni autostradali è un modo per placare le polemiche interne, ma svela anche molto dell'ideologia che muove il ministro dello Sviluppo
Roma. E’ ripartita la telenovela sulla revoca o meno, sulla nazionalizzazione ma anche no, delle concessioni autostradali. “Se vogliamo fare giustizia – ha dichiarato il ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, parlando a Genova del crollo del Ponte Morandi – come Stato abbiamo il dovere di togliere le autostrade italiane a chi non ha fatto le manutenzioni. Ed è quello che porteremo avanti”. E c’è anche una data: “Se il 14 agosto il governo vuole andare a commemorare le vittime del ponte Morandi, ci deve andare con la procedura di revoca delle concessioni almeno avviata. Questa è una volontà politica del M5s e lo deve essere del governo”.
Sulla stessa lunghezza d’onda si è sintonizzato il premier Giuseppe Conte, che già l’anno scorso aveva annunciato la “caducazione” della concessione, anche se adesso usa parole più diplomatiche: “è una tragedia che non può essere oscurata, non possiamo far finta che non sia successo niente. Questo ci ha portato ad avviare una procedura di contestazione alla società concessionaria. E' un fatto oggettivo il grave inadempimento rispetto all’obbligo di manutenzione – ha dichiarato dal G20 di Osaka –. Abbiamo costituito una commissione di esperti presso il Mit che stanno completando il loro lavoro. All’esito di questa valutazione il Governo si assumerà le sue responsabilità”.
L’altro azionista del governo, Matteo Salvini, è invece molto più cauto e ha dichiarato che “una cosa è chiedere che chi ha sbagliato paghi, un conto è tirare in ballo lavoratori e risparmiatori che non c’entrano nulla”, descrivendo Atlantia “un’azienda che è una risorsa di questo paese”. La dichiarazione è evidentemente una risposta al violento attacco del giorno precedente sferrato da Di Maio alla holding che controlla le Autostrade, definita “un’azienda decotta” che in un’eventuale ruolo nel salvataggio di Alitalia farebbe perdere valore alla compagnia aerea perché il governo le toglierà le concessioni autostradali. Insomma, Atlantia sarebbe messa così male da poter danneggiare un’azienda fallita come Alitalia. Le dichiarazioni sono arrivate a mercati aperti, hanno fatto – queste sì – perdere valore al titolo di Altantia e hanno provocato una dura reazione della società, che ha annunciato azioni legali per tutelare azionisti, investitori e dipendenti.
Le dichiarazioni di Di Maio sono sconsiderate, anche perché il ministro non sembra neppure capace di distinguere Aspi, che è la società concessionaria, con Atlantia che è una multinazionale presente in 23 paesi del mondo, con 31 mila dipendenti, che ha appena acquisito la spagnola Abertis. In maniera davvero surreale, in simultanea alle dichiarazioni di Di Maio sulla “decotta” Atlantia, Virginia Raggi – sempre inconsapevole di ciò che le accade attorno – elogiava l’eccellente lavoro di una società del gruppo Atlantia: “Anche quest’anno Roma Fiumicino è il miglior aeroporto di Europa. Voglio fare i miei complimenti alla società Aeroporti di Roma”.
La riapertura del caso Autostrade può avere una doppia chiave di lettura. Quella contingente, che è la ricerca da parte di Di Maio di un nuovo nemico per placare le polemiche interne (c’è il duro e puro Di Battista che strepita) e per coprire il cedimento ormai certo sulla Tav. Ma ce n’è un’altra più profonda, e pertanto più preoccupante e pericolosa, descritta molto bene da Dario Di Vico sul Corriere della sera: la cultura politica fortemente ostile “all’impresa e alla libera iniziativa” di Di Maio. “Se al momento della definizione degli incarichi Di Maio ha voluto intestarsi anche il ministero dello Sviluppo economico uno psicologo potrebbe spiegarci che l’ha fatto proprio per punire l’impresa, per far sentire agli industriali quanto può far male il nodoso bastone della politica”. Un paese con tante industrie e zero crescita non può permettersi un ministro dello Sviluppo del genere.