Il popolo è liquido
L’Italia del lavoro sommerso, del denaro contante, è quella che sfugge alle statistiche e reagisce ai cambiamenti quando la politica non trova le soluzioni. Come funziona l’ecosistema del cash
Sapete qual è la quinta economia europea? E’ una entità particolare che potremmo chiamare Italia liquida. Intendiamoci, l’Italia presa nella sua interezza è quarta in classifica se consideriamo anche il Regno Unito, terza se scontiamo la Brexit. Ma immaginiamo che il pil non sia formato da tutti i beni e servizi prodotti e forniti in un anno, bensì solo dal denaro depositato in banca senza interessi, chiuso nelle cassette di sicurezza o magari nascosto sotto i materassi degli italiani. Ebbene, così facendo arriveremmo a 1.500 miliardi di euro più dell’intero pil spagnolo che, invece, sfiora i 1.400 miliardi. E’ una provocazione intellettuale? Messa in questi termini lo è, anche perché confrontiamo uno stock con un flusso e questo non si fa, eppure serve a rivelare che l’Italia è liquida. E lo sa. Proprio questa riserva, questo fieno messo in cascina, la rende ricca e tutto sommato sicura. Gli italiani partecipano alla saga della povertà che ha portato i nazional-populisti al potere, lo fanno perché ammaliati da questa storia raccontata da un folle (anzi più di uno), ma lo fanno anche per interesse. Perché quella ricchezza rivelata dalle stime se ne resta acquattata, sfugge alle grinfie del fisco, scivola via dalle mani della politica che tenta, ogni volta, di afferrarla. Ci prova anche Matteo Salvini: quella sulle cassette di sicurezza non era una battuta, visto che lì dentro non ci sono solo i gioielli della nonna, ma pile di banconote da 500 euro. Il capo della Lega ha in parte ritrattato, come fa spesso, però un governo alla disperata ricerca di denaro per far fronte alle sue false promesse, prima o poi ci arriverà. I precedenti ci sono (si pensi a Giuliano Amato nel settembre 1992 quando, per cercar di difendere la lira, nottetempo prelevò forzosamente il sei per mille dai conti correnti) e tecnicamente parlando è sempre la cosa più facile da fare.
Questa Italia liquida è frutto della crisi. O meglio la lunga crisi ha rafforzato una tendenza che ha sempre segnato l’economia del paese. Dal 2007 al 2017 la liquidità è aumentata del 25 per cento, stima Massimiliano Valerii direttore generale del Censis, il che smentisce ancora di più la vulgata pauperistica. Certo, nemmeno il denaro liquido è distribuito in modo equo, ma attenzione, le grandi fortune non stanno certo nei contro-soffitti alla Fabrizio Corona. L’Italia non è povera, e non si è nemmeno impoverita se prendiamo come punto di riferimento la ricchezza complessiva. I pochi che hanno avuto il coraggio di scriverlo hanno fatto appello all’osservazione, all’esperienza, al buon senso, adesso però ci sono anche i numeri. L’ultima ricerca della Banca d’Italia ha calcolato che la ricchezza delle famiglie italiane arriva a diecimila miliardi di euro. Una parte è immobilizzata in terreni e abitazioni che, con le difficoltà del mercato, sono difficili da trasformare in reddito. Una parte è composta da ricchezza finanziaria. Mobile, mobilissima. Il portafoglio finanziario ammonta a 4.400 miliardi di euro e un terzo è in contanti. Mentre il nord Europa si diletta con la società senza cash, anzi libera dal contante, “cash free” come la chiamano in Svezia con una definizione che contiene in sé un giudizio di valore, l’Italia è ancora per molti aspetti una cash society. E’ un retaggio del passato, ma il fenomeno continua se pensiamo che l’anno scorso alla montagna di liquidità sono stati aggiunti altri 200 miliardi, cinque volte la manovra che il governo dovrebbe fare per tenere i conti sotto controllo. Giuseppe De Rita ha inventato un’altra delle sue icastiche definizioni: ecosistema del cash. E spiega: “Certo non riusciremo poi a fare la somma quantitativa dei fenomeni che cercheremo di individuare, ma la loro elencazione può servire per delineare quel che potremmo definire un ecosistema del cash in cui non ordinatamente si muovono fenomeni sostanziosi, ma in qualche modo sottovalutati dai commentatori e dagli studiosi”. Eccoli qua.
Vivono di cash tutti quei “lavoretti” che, per dimensione e per livello qualitativo, sfuggono alle statistiche ufficiali; lavora sul cash buona parte della nuova impennata delle partite Iva, innescata da alcuni recenti provvedimenti legislativi (il regime forfettario detto flat tax); cerca e sfrutta il cash buona parte della rotazione su se stesse di molte aziende, con la crescente propensione alle decisioni di “apri e chiudi” o di “chiudi e apri”; lavorano sul cash alcune attività economiche (agricoltura e logistica in primo luogo) dove vige il sistema dell’appalto e del subappalto del personale, anche senza andare ai limiti inaccettabili del caporalato; vive di cash una buona parte della nuova offerta turistica low cost (dalla miriade di bed and breakfast alla miriade dei servizi accessori); vivono di cash le componenti nuove e informali del welfare (dal semi- volontariato ai provider del welfare aziendale); vive di cash gran parte dei servizi domiciliari, da quelli alla persona (terapisti, badanti, ecc.) a quelli alla quotidiana gestione dell’abitazione (dagli idraulici ai giardinieri); vive di cash buona parte dell’attività di manutenzione ordinaria di edifici, parchi e marciapiedi, e anche un minimo di quella straordinaria, con la “discesa a cascata” dei relativi affidamenti; vive di cash molta parte della diffusissima attività di organizzazione di eventi (dalle sagre paesane alle grandi manifestazioni di piazza); vive di cash una parte del mondo della produzione e della commercializzazione artistica, spesso legata a relazioni e scelte strettamente personali.
Nessuno può calcolare esattamente l’intero sommerso, tanto meno questo nuovo “ecosistema del cash” che non è necessariamente tutto sommerso. Secondo l’Istat l’economia in nero ammonta a 192 miliardi, pari all’11,4 per cento del prodotto interno lordo italiano, con tre milioni e 200 mila occupati, se aggiungiamo anche la componente esplicitamente illegale si arriva a 240 miliardi pari al 12,3 per cento del pil. Che Italia esprime questa massa di denaro? E che tipo di sommerso è quello del nuovo millennio? La prima considerazione, la più evidente, è che si tratta di una reazione difensiva, per Andrea Bianchi, direttore per le politiche industriali della Confindustria, è addirittura “una fuga dalla realtà”. C’è molto in comune, a una prima occhiata, con quel che avvenne dopo gli anni ’70. Anche allora l’economia e la società risposero dal basso alla crisi del vecchio modello di sviluppo, quello del Dopoguerra, quello del miracolo economico. Sul piano manifatturiero, la caduta più fragorosa e distruttiva fu quella della grande impresa: impiegò oltre un decennio per consumarsi, ma senza dubbio venne colpita e poi affondata dall’impennata dei prezzi del petrolio e di tutte le materie prime. Avvenne un trasferimento di ricchezza immediato, brusco, consistente a favore dei paesi esportatori e più in generale del Terzo Mondo. Una anticipazione di quel che è avvenuto con la globalizzazione, anzi più concretamente con l’ingresso senza condizioni della Cina nell’Organizzazione mondiale del Commercio l’11 dicembre 2001, come non si stanca di ricordare Giulio Tremonti.
Quella risposta cominciò con “i fili d’erba”, cioè con lo spuntare di una miriade di piccole imprese (alcune esistenti, molte altre nuove) che alla lunga occuparono lo spazio di mercato delle grandi aziende, grazie alla maggiore flessibilità nell’impiego dei fattori, a salari più bassi e a una produttività più elevata. Fulvio Coltorti, già capo del servizio studi di Mediobanca e ora docente alla Cattolica di Milano, ha più volte messo cifre concrete davanti a questi fenomeni economico-sociali, mostrando come l’inesorabile crollo della competitività delle grandi imprese si è accompagnato a una continua crescita della competitività nelle piccole. Quei fili d’erba si sono irrobustiti, sono diventati cespugli, poi alberi, poi macchie e boschi sempre più diffusi, è sorto un nuovo modello industriale basato sui distretti, ha creato un “quarto capitalismo”. Accadrà ancora con il nuovo sommerso? Il Censis ne dubita. Un tempo la vitalità veniva dal territorio, adesso viene dal mercato, spiega De Rita: “Tutti ricordiamo che la nostra proliferazione soggettuale è venuta dal basso: cioè dalla realtà locale, dal territorio, dagli enti intermedi, dalle banche locali, in un intreccio di responsabilità che sotto sotto garantiva ai soggetti vitalità e orientamento dei comportamenti. La dinamica si è nel tempo invertita, visto che la vitalità soggettuale viene oggi da stimoli prevalentemente esterni: dalla modulare globalizzazione dei mercati industriali e finanziari, dal peso delle filiere in cui le singole imprese si immettono per creare valore, dai target di qualità che le imprese competitive impongono al proprio indotto, dalla crescente importanza dei vari segmenti del terziario internazionale (logistica, finanza, ricerca, ecc.). Se è così, cambia la natura stessa dello spirito di iniziativa: non è più radicato nella libertà e nella fiducia soggettiva, ma nella continua ricerca di spazi di mercato e nel continuo adattamento al loro variare”.
Oggi il mercato costringe a mettere insieme i soggetti un tempo sparsi, li collega in una catena di creazione di valore come dicono gli economisti che è anche una catena di relazione, di associazione, di confronto continuo. Il mercato non è il luogo dell’isolamento, ma al contrario dello scambio, quindi delle relazioni con gli altri, con i proprio simili e ancor più con i diversi, guidato com’è da quella pulsione etica e sociale che Adam Smith chiamava “sympathy”. In concreto, vediamo già come funziona questo modello in un settore come quello automobilistico. L’Italia ha dimezzato la sua produzione di veicoli, se guardiamo alle fabbriche della Fiat, ma ha esteso e valorizzato la sua partecipazione a quel che viene chiamato settore automotive; da noi si montano meno auto, ma si producono sempre più componenti dai più semplici ai più sofisticati. Il nuovo sommerso sarà sottoposto anch’esso allo stesso processo?
Intanto, il suo campo non è l’industria, ma soprattutto i servizi e in particolare il welfare, i servizi sociali. E’ anche in questo caso una risposta alla crisi, ma non solo, è una sostituzione. Il grande punto debole della economia italiana è proprio nel terziario propriamente detto; qui la produttività è più bassa, e con essa i salari; qui l’efficienza è tutta da inventare; qui l’organizzazione è ancora estremamente arretrata; qui la tecnologia digitale è penetrata più lentamente, si pensi al ritardo delle banche e all’affannosa rincorsa di questi ultimi anni. Intanto è proprio qui che si creano i posti di lavoro. Già nel 2017 l’occupazione ha raggiunto i livelli precedenti alla crisi con 18 milioni di addetti ed è grosso modo alla pari con la Germania, ma con una maggiore espansione dei servizi privati rispetto a quelli pubblici. Le professioni più ricercate riguardano il turismo e il commercio: camerieri, cuochi e baristi nel primo caso, commessi e tecnici alle vendite nel secondo. Il turismo e il settore delle collaboratrici familiari si caratterizzano per una quota di donne, part-time e stranieri nettamente superiore agli altri settori, mentre all’opposto nell’Ict (tecnologie dell’informazione e della comunicazione) e vigilanza la maggior parte dei lavoratori sono maschi, full-time e italiani.
Siccome l’innovazione procede a salti, sono arrivate le app e hanno spiazzato quel vecchio mondo che ancora stenta a modernizzarsi. Il caso più evidente, nel turismo, è AirB&B e gli alberghi. Mentre ancora per prenotare una camera che non fosse nelle catene del lusso bisognava attendere in linea, chiamando da rete fissa a rete fissa, ha fatto irruzione Booking, poi le vecchie camere d’affitto sono diventate bed & breakfast. Mentre nel negozio di prossimità si paga ancora in contanti e al supermercato bisogna caricare di pacchi i carrelli, arrivano le catene di delivery. Il web trasforma il commercio e anche in Italia spiazza il negozio tradizionale: o si specializza o scompare. Circa il 35 per cento dei consumatori italiani compra online, acquisti che valgono circa l’1,5 per cento del pil, ancora poco in confronto agli altri paesi europei, in parte per problemi tecnologici in parte per scarsa fiducia. Ma attenzione, ogni anno si registrano incrementi del 20-30 per cento. L’esperienza d’acquisto fisica è ritenuta sempre più un’attività noiosa che non tiene il passo con i tempi per il 42 per cento degli utenti. Il cliente vuole ancora toccare e vedere la merce ed essere assistito dagli addetti alle vendite, ma pretende di avere molti dei servizi che trova online: verifica delle disponibilità, consegna rapida, sconti personalizzati. Quanto al welfare, che in una società sempre più vecchia diventa soprattutto assistenza agli anziani, qui l’impatto della trasformazione digitale potrebbe sostituire la mano pubblica sempre più pesante e inefficiente con sistemi misti molto più leggeri ed efficaci. Tutto questo richiede due fondamentali condizioni: la messa in rete e la collaborazione all’interno di una filiera. Proprio come è successo con l’industria. L’Italia è in ritardo e il gap è stato colmato dal nuovo sommerso.
Viviamo una transizione verso un nuovo assetto o vince ancora una volta il continuismo, “il filo rosso della nostra evoluzione storica”, come lo chiama De Rita? L’Italia liquida, l’Italia del sommerso, rimanda esattamente al modello più scontato, ma “proprio i punti di forza del passato sono diventati spazi di incertezze e paura”, sottolinea il fondatore del Censis, “bisogna averne consapevolezza, se non si vuole che ogni tanto arrivi uno scossone che ambisce a un necessario cambio di paradigma e a un catartico ritorno al primato della politica, ma che poi senza quasi sorpresa torni ai giorni noiosi dove tutto è come prima, senza mai un vero sentimento di futuro: autentica causa del nostro continuismo”. Il governo del cambiamento s’è appiattito sul presente e ormai guarda indietro (le nazionalizzazioni, il sovranismo, le clientele, il familismo e via di questo passo), così che alla fine avremo la restaurazione senza aver avuto la rivoluzione.