Di tasse e altri misteri
Slogan, bandiere, fantasmi, furbate e sogni impossibili. Il governo ha reso la giungla delle tasse più confusa di prima e la nuova dichiarazione dei redditi diventa lo specchio di un paese più simile a Kafka che a Reagan
“Per questo, allora, dovete pagare le tasse, perché coloro che compiono questa funzione sono ministri di Dio”
San Paolo, Lettera ai Romani, 13,6
La prossima settimana gli italiani dovranno presentare la dichiarazione dei redditi e pagare, senza sapere esattamente che cosa. Molti per la verità non sanno nemmeno quanto, tra anticipi, conguagli e via dicendo; quindi viene spontaneo chiedersi anche il perché. Il leghista Armando Siri ha illustrato al consiglio generale delle corporazioni presieduto da Matteo Salvini e riunito al Viminale (tornato così la sede del governo come fino al 1929), una nuova imposta sul reddito che a quanto pare s’aggiunge a quelle esistenti, ma ha promesso che 20 milioni di famiglie avranno un beneficio di 3.500 euro l’anno, il che costerà alle casse dello stato 20 miliardi di euro. Siccome l’aritmetica non è ancora un’opinione, la moltiplicazione dovrebbe dare 70 miliardi, a meno che il beneficio non sia di fatto inferiore e/o meno esteso. E così sarà. Il Movimento 5 stelle, l’alleato di governo che può contare alla Camera e al Senato quasi il doppio dei parlamentari della Lega, ha già gettato sabbia sull’intero meccanismo, quindi bisogna aspettare per capire se sotto tanto fumo c’è anche dell’arrosto. Siri parla di “famiglia fiscale” anziché di singolo contribuente, di tetti a 30 mila euro per un single, 55 mila per famiglia monoreddito e 65 mila per chi percepisce più redditi. Secondo alcune indiscrezioni, la percentuale del 15 per cento potrebbe essere facoltativa, esattamente come avviene per le partite Iva sotto i 65 mila euro annui. Ma c’è anche la possibilità che il 15 per cento diventi 10 per cento con le deduzioni che riducono la base imponibile. Insomma, la proposta leghista rende sempre più fitta, confusa e inestricabile la giungla delle tasse.
I contribuenti tra gennaio e dicembre 2018 hanno pagato 463 miliardi e 296 milioni di euro. Accanto a quelle dirette sul reddito (Irpef sulle persone fisiche, Ires sulle società, Irap sulle attività produttive, Isos sostitutiva sui capitali, Imu municipale) pari a 247,6 miliardi dei quali 187,4 miliardi dall’Irpef, ci sono le imposte indirette (215,6 miliardi), la più importante
La proposta leghista rende sempre più fitta, confusa e inestricabile la giungla delle tasse. Siri parla di “famiglia fiscale”
è l’Iva che colpisce il valore aggiunto (aliquota media 22 per cento) e genera un gettito di 133 miliardi l’anno scorso. Esistono le imposte che gravano sui consumi (per esempio il tabacco), le accise (imposte di fabbricazione e vendita come sulla benzina attraverso la quale si pagano ancora i trasferimenti per i terremoti le catastrofi naturali di mezzo secolo fa), c’è anche la tassa sui televisori per finanziare la Rai, sono 2,1 miliardi di euro che si pagano insieme alle bollette elettriche, una vera offesa al principio base della trasparenza. Vengono colpiti i risparmi, i depositi bancari, i capitali, gli aeroporti, i porti, gli alberghi (pagati dai clienti). Le patrimoniali che colpiscono la proprietà portano al fisco circa 45 miliardi: l’imposta di bollo (6,8 miliardi), l’imposta di registro e sostitutiva (5,2 miliardi), l’imposta ipotecaria (1,6 miliardi), i diritti catastali (659 milioni appena), poi il bollo auto (6,6 milioni), l’imposta su transazioni finanziarie (solo 400 milioni), l’imposta sulle successioni e donazioni (736 milioni, tra le più basse in Europa), imposte minori come quelle sul patrimonio netto delle imprese e sulle imbarcazioni e aeromobili. Il grosso del gettito, quasi 22 miliardi di euro l’anno, proviene dalle abitazioni con l’Ici/Imu/Tasi. Sono tutte “tasse piatte” (non progressive), con un effetto svantaggioso per le famiglie italiane nelle quali i beni colpiti possono costituire una parte importante della ricchezza. Sfioriamo soltanto, per non perderci, il bosco dei contributi sociali che gravano per 229,5 miliardi (dei quali 211,4 all’Inps ) sui lavoratori e sugli imprenditori, anch’essi numerosi, opachi, oggetto continuo di trattativa sindacale e scambio politico (per esempio la fiscalizzazione degli oneri sociali negoziata in modo triangolare tra governo, Confindustria e confederazioni sindacali).
Il Senato ha pubblicato un “documento di valutazione” delle imposte sui redditi intitolato “La giungla delle aliquote effettive”
L’intrico si fa ancor più fitto quando arriviamo alle imposte sui redditi. Intanto, è persino difficile capirle. Il Senato ha pubblicato un “documento di valutazione” intitolato “La giungla delle aliquote effettive” che chiarisce la differenza tra la percentuale applicata per ogni scaglione di reddito (aliquota marginale o legale) e quel che si paga in pratica una volta calcolate deduzioni e detrazioni (aliquote medie effettive). “L’estrema articolazione e complessità delle norme determina un’alta variabilità: accanto alle aliquote legali (o esplicite) esistono molte aliquote implicite che derivano dalla variazione dei benefici o delle detrazioni che abbassano l’Irpef lorda”, scrive lo studio redatto da due funzionari del ministero dell’Economia e uno del Senato. Alcune aliquote medie sono infatti diventate, in determinati intervalli, decrescenti al crescere del reddito. Altre salgono e scendono moltissimo in brevi intervalli di reddito, determinando effetti indesiderati, tra i quali quello della cosiddetta trappola della povertà, con aliquote marginali effettive superiori al 100 per cento. Paradosso dei paradossi, “l’aliquota marginale effettiva risulta sostanzialmente invariata, anziché crescente, da 28 mila euro annui fino a svariati milioni”.
La Corte dei Conti sostiene che il 52,5 per cento dei contribuenti (cioè quelli fino a un imponibile di 28 mila euro l’anno) paga di fatto il 14,4 per cento meno di quel che promette la Lega. Come mai? Ecco i conti rielaborati dall’Adnkronos: lo scaglione che dichiara fino a 15.000 euro l’anno, pari a 17,6 milioni di contribuenti, paga un’Irpef media del 5,2 per cento, mentre lo scaglione successivo, tra 15.000 e 28.000 euro, versa il 14,4 per cento. Tutto merito degli sconti fiscali i quali, per queste due fasce, ammontano a 67,2 miliardi di euro, su un totale di 107,4 miliardi tra detrazioni e deduzioni. Le aliquote marginali, per i primi due scaglioni, sarebbero rispettivamente del 23 e del 27 per cento. Tra 28.000 e 55.000 euro, cioè 6,2 milioni di contribuenti, l’aliquota media effettiva è pari al 21,4 per cento (38 per cento quella marginale); mentre per quello successivo (tra 55.000 e 75.000 euro) l’imposta sale al 27,4 per cento (41 per cento quella marginale). Infine per l’ultimo scaglione, quello che supera i 75.000 euro, il prelievo arriva al 33,2 per cento (43 per cento l’aliquota marginale). Le ultime due fasce comprendono 1,8 milioni di contribuenti, equamente divisi.
Ma quanto versano al fisco i contribuenti italiani che hanno dichiarato un reddito complessivo di 844,6 miliardi di euro sui quali si applicano agevolazioni fiscali per 107,4 miliardi di euro? Il primo scaglione, pari a 127,6 miliardi, ha potuto godere di deduzioni per 7,3 miliardi e detrazioni di 20,1 miliardi, per un totale di 27,4 miliardi di euro. Nel secondo scaglione c’è un imponibile dichiarato di 311 miliardi, con sconti in deduzioni pari a 12,7 miliardi più altri 27,1 miliardi di detrazioni, per un totale di 39,8 miliardi che ammonta al 37,1 per cento di agevolazioni fiscali. La terza fascia (fino ai 55.000 euro fissati come tetto dalla Lega) ha dichiarato un reddito di 229,6 miliardi di euro e ha ottenuto deduzioni e detrazioni per un totale di 23,9 miliardi. Ci sono poi 900.000 contribuenti che appartengono al quarto scaglione, hanno dichiarato 55 miliardi e hanno ottenuto 4,4 miliardi in deduzioni e 1,1 miliardi in detrazioni, per 5,5 miliardi, pari al 5,1 per cento del totale. L’ultimo gruppo, composto anch’esso da 900.000 contribuenti che hanno dichiarato 121,5 miliardi e hanno ottenuto agevolazioni per 10,9 miliardi di euro.
Può darsi che Armando Siri non abbia consultato i dati, oppure il meccanismo studiato dagli esperti della Lega sia così misterioso e sofisticato da essere sfuggito ai magistrati della Corte dei Conti. Ma prendiamo sul serio obiettivi e strumenti della cosiddetta Flat tax. In tal caso, le tre obiezioni mosse dall’Istituto Bruno Leoni sono davvero consistenti. Primo: “Se l’aliquota del 15 per cento fosse calata nell’attuale sistema sulla scorta di quanto fatto per le partite Iva, i contribuenti avrebbero un enorme incentivo a mantenersi al di sotto della soglia dei 55 mila euro, perché – superandola – il carico fiscale si moltiplicherebbe di colpo, col passaggio repentino a un’aliquota marginale del 41 per cento”. La seconda questione riguarda l’irrazionalità di un sistema in cui “persone con pari reddito possono essere assoggettate ad aliquote totalmente diverse, e persone con redditi più alti possono pagare aliquote più basse di altre con redditi inferiori”. Infine, chi paga? “Una riduzione di tasse non deve solo sembrare una riduzione delle tasse. Deve anche esserlo. Fermi restando i vincoli di finanza pubblica, questo implica un taglio della spesa di cui, al momento, non abbiamo né indizi né segnali”. Il parametro fondamentale si chiama pressione fiscale, cioè il peso complessivo delle imposte di qualsiasi natura esse siano sul reddito prodotto dagli italiani. E questo resta non solo troppo alto al 43 per cento, eccessivo per la natura e qualità dei servizi erogati, e anche rispetto al pil italiano.
Nelle sue considerazioni finali lette il 31 maggio di quest’anno, il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco ha chiesto esplicitamente di rivedere il sistema fiscale nel suo insieme. Rileggiamo le sue parole già dimenticate stando al dibattito politico di questi giorni: “Il Paese ha bisogno di un’ampia riforma fiscale. Dai primi anni Settanta del secolo scorso sono
Il movimento operaio, laburista e socialista, ha affidato alle imposte il ruolo di assicurare la giustizia e finanziare lo stato sociale
state introdotte nuove forme di tassazione ed è stato progressivamente definito un complesso insieme di agevolazioni e di esenzioni, nell’assenza di un disegno organico e con indirizzi non sempre coerenti. Rivedendo solo alcune agevolazioni o modificando la struttura di una singola imposta si proseguirebbe in questo processo di stratificazione. Bisogna invece interromperlo, per disegnare una struttura stabile che dia certezze a chi produce e consuma, investe e risparmia, con un intervento volto a premiare il lavoro e favorire l’attività di impresa”. Il governo gialloverde, allo stato attuale, non ha dato retta al governatore.
Tutti hanno molto da farsi perdonare sulle tasse. A destra pesano le promesse non mantenute, a sinistra quelle non fatte. Silvio Berlusconi nell’ormai lontanissimo 2001 firmò in tv davanti a Bruno Vespa il suo contratto con gli italiani impegnandosi a ridurre le imposte, sia il numero degli scaglioni sia le aliquote. E c’era anche la Lega allora guidata da Umberto Bossi, ma fieramente anti tasse. Hai voglia a evocare Margaret Thatcher: la spesa pubblica sul prodotto lordo è aumentata. Hai voglia a idolatrare Ronald Reagan: tutte le imposte, comprese quelle sui redditi, sono lievitate, anche se non abbastanza per coprire la spesa corrente. Poi è arrivata la crisi e con essa la patrimoniale Monti sulle case che ha colpito la ricchezza degli italiani e ha generato una vera rivolta. Nel frattempo, Romano Prodi che aveva battuto di nuovo Berlusconi nel 2006, evocava San Paolo per convincere gli italiani che “pagare le tasse è bello”, come disse il suo ministro dell’economia, Tommaso Padoa Schioppa. Quel governo in realtà intervenne nel ridurre del 5 per cento il cuneo fiscale, cioè la differenza tra il costo del lavoro comprensivo di imposte e contributi e la busta paga effettiva, che s’aggirava allora sul 45 per cento. Vennero fiscalizzati gli oneri sociali, spalmandoli indirettamente sull’intera platea dei contribuenti. Non funzionò granché e quando il Pd è tornato al governo nel 2013, il cuneo fiscale, ancora troppo ampio, è diventato una pistola scarica, lasciando la sinistra nuda davanti al tabù delle tasse.
Tutti hanno molto da farsi perdonare sulle tasse. A destra pesano le promesse non mantenute, a sinistra quelle non fatte
Karl Marx non aiuta, ambiguo come spesso gli capitava, nel Manifesto del 1848 aveva evocato una imposta progressiva; più tardi, attaccando il programma del partito socialdemocratico tedesco, aveva liquidato come un’illusione sia tassare i redditi sia colpire l’eredità, per lui ormai contava soltanto la presa del potere da parte del proletariato. Tutto il movimento operaio, laburista e socialista, ha affidato alle imposte il ruolo di assicurare la giustizia e finanziare lo stato sociale. Un’impostazione che non è cambiata nemmeno quando la globalizzazione ha reso i redditi, e non solo quelli da capitale, sempre più mobili, mondiali, inafferrabili, così che il peso di un apparato statale sempre più grande e burocratico ha finito per gravare soltanto sui redditi da lavoro, per lo più da lavoro dipendente. Così, la sinistra si è trovata nella paradossale situazione di dover tartassare proprio i ceti sociali di riferimento e i suoi elettori hanno finito per punirla. In Italia, in Europa e persino negli Stati Uniti. Un errore strategico dal quale non ci si riuscirà a riprendere facilmente.
Intanto la nuova destra s’appropria di uno strumento, la flat tax, senza sapere davvero come farlo funzionare. Sventola una bandiera, grida uno slogan e alla fine della fiera il peso del fisco aumenta insieme a quello dello stato. Il vero tabù si chiama spesa pubblica. I Cinque stelle che mietono voti soprattutto al sud sanno bene che la spesa assistenziale è il pane e il companatico del candidato. La Lega che ormai amministra quasi tutto il nord non ha intenzione di ridurre i trasferimenti pubblici agli enti locali, nei quali s’annida il marcio della spesa corrente. La battaglia sull’autonomia serve anche a coprire l’eccesso di spesa riappropriandosi ex ante di parte della quota versata al fisco. Lo stesso vale per il continuo ricorso ai condoni (adesso si parla di una pace fiscale bis) che ha l’obiettivo di aumentare le entrate per evitare di ridurre le spese. Il governo del cambiamento ha ottenuto il consenso degli elettori attaccando la politica e gli sprechi del denaro pubblico, ora passerà alle cronache come quello che ha più dilapidato (la spesa supererà i 900 miliardi di euro nei prossimi due anni) senza nemmeno ottenere una maggiore crescita economica e una migliore distribuzione dei redditi. Chissà che cosa direbbe Paolo di Tarso se oggi scrivesse ai romani.