Carlo Bonomi, Presidente Assolombarda (foto LaPresse)

Il manifesto del presidente di Assolombarda (con appello alla classe dirigente sonnambula)

Carlo Bonomi

Bilancio di un anno perduto per la crescita, tra errori e miopie di un governo litigioso che ha puntato solo su riforme recessive dimenticandosi del futuro. Il populismo è un virus letale ed è ora di sfidarlo con nuove idee

Un anno perduto, per la crescita italiana. Non è il caso di fare giri di parole. A luglio ormai inoltrato di questo 2019, si può e si deve usare questa espressione senza timore di apparire inutilmente polemici. Semplicemente e purtroppo: è un dato di fatto. L’ultimo bollettino della Banca d’Italia stima anche per il secondo trimestre una crescita praticamente in stagnazione. Il che significa cinque trimestri successivi che ci hanno riportato verso tassi annuali di andamento del pil misurabili in zero virgola. Siamo ultimi nell’Europa a 28, nelle stime di questo 2019. La frenata internazionale, dovuta agli effetti dell’alternarsi di strappi e trattative tra Usa e Cina sul tavolo dei surplus commerciali e dei dazi, era davanti a noi già un anno fa. Così come il fatto che a esserne più esposti erano ovviamente i paesi a maggior avanzo commerciale, cioè in Europa la Germania e l’Italia. Infatti la Germania è scesa a un tasso di crescita intorno allo 0,5 per cento annuo e la Ue a un tasso previsto all’1,4 per cento nelle ultime revisioni della Commissione europea. Ma l’Italia è, appunto, ultima con un 2019 stimato a +0,1 per cento del pil.

 

Di fronte a questo dato, la domanda “come mai?” per definizione non ammette una sola causalità. Ma di sicuro sono molte le correlazioni che possiamo ricavare dalla ricca congerie di dati settoriali che oggi ci sono noti e possiamo analizzare. Mi limito a ricordarne alcuni e, per il mandato di rappresentanza di Assolombarda che ricopro, cito quelli che hanno a che vedere direttamente con lo stato dell’economia e con la condizione che le nostre imprese si trovano ad affrontare.

 

L’ultimo bollettino della Banca d’Italia stima anche per il secondo trimestre una crescita praticamente in stagnazione

La settimana scorsa la filiera delle macchine utensili, da sempre protagonista di eccellenza del made in Italy e dell’export sui mercati mondiali, visto che esportiamo oltre il 50 per cento della produzione nazionale di settore, ha aggiornato gli andamenti del 2019. Nel secondo trimestre 2019 l’indice Ucimu (Unione costruttori italiani macchine utensili) degli ordini di macchine utensili ha segnato un calo del 31,4 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente con un deciso arretramento nella raccolta di ordinativi sia sul mercato interno (-43 per cento) sia sul mercato estero (-28,5 per cento). “Il calo degli ordini interni – secondo il presidente Ucimu, Massimo Carboniero – dimostra che il mercato domestico, dopo il grande choc positivo provocato dai provvedimenti 4.0, sta tornando alle sue dimensioni fisiologiche ma, sebbene ci aspettassimo un cambio di passo, questo processo di normalizzazione è risultato, nei primi mesi dell’anno, particolarmente repentino, anche a causa della mancanza di chiarezza sull’operatività delle misure per la competitività che il governo avrebbe dovuto mettere a disposizione delle Pmi fin da subito”.

 

Passiamo all’occupazione. Siamo scesi sotto la soglia di disoccupazione del 10 per cento. Una soglia più che altro psicologica, visto che la media della Ue a 28 paesi sta al 6,3 per cento, e peggio di noi, con disoccupazione a doppia cifra, sono solo Spagna e Grecia. Ma il punto è che Grecia e Spagna stanno rapidamente riducendo la propria quota di disoccupati. Mentre da noi la Cassa integrazione straordinaria nei primi sei mesi del 2019 è tornata a salire del 41,88 per cento, specie nell’industria e nell’edilizia. Se affianchiamo all’andamento Cigs il dato di maggio relativo alle richieste di Naspi (Nuova assicurazione sociale per l’impiego), riscontriamo che esse hanno nuovamente superato quota 100 mila, 104.800 per la precisione, +1,3 per cento sull’anno. Sono ormai mesi che Cigs e Naspi salgono a doppia cifra.

 

Nel secondo trimestre 2019 l’indice degli ordini di macchine utensili ha segnato un calo del 31,4 per cento rispetto al 2018

Passiamo al Mezzogiorno. Confindustria ha appena aggiornato le sue analisi, in occasione del “Check-Up Mezzogiorno”, realizzato insieme a Srm del Gruppo Intesa Sanpaolo. Al sud la disoccupazione giovanile raggiunge il tasso record del 51,9 per cento: in pratica, più di un giovane meridionale su due non lavora. I disoccupati totali sono circa 1 milione e 500 mila, mentre molti di più sono gli inattivi. Rispetto ai 300 mila residenti in meno in Italia, nei soli ultimi tre anni 2015-18, oltre 222 mila sono venuti meno al sud. Nel Mezzogiorno ha infine smesso di crescere il numero delle imprese: dopo molti trimestri di aumento, infatti, nei primi mesi del 2019 le imprese attive risultano meno di un milione e 700 mila, come un anno fa.

 

Un altro osservatorio è quello dell’economia digitale, uno degli ambiti chiave dell’innovazione. Confindustria Digitale ha appena lanciato l’allarme. L’indice Desi della Commissione europea, che monitora lo stato di attuazione dell’Agenda Digitale, da un quinquennio colloca il nostro paese agli ultimi posti in classifica Ue, e nel 2019 ci siamo ritrovati al 24esimo. In Italia ci si ferma ad appena 85 euro per cittadino di spesa pubblica per il digitale, a fronte dei 186 della Francia, 323 del Regno Unito e 207 della Germania. Per raggiungere i livelli dei nostri partner europei, gli investimenti pubblici dovrebbero raddoppiare dai 6 miliardi circa attuali a 10-11 miliardi di euro l’anno. Investimenti che renderebbero la Pubblica amministrazione più digitale, con benefici tangibili in termini di riduzione di sprechi e ridondanze e conseguenti risparmi sulla spesa corrente. 

  

Secondo le stime del Politecnico di Milano, la Pa digitale a regime può portare fino a 25 miliardi di euro nelle casse pubbliche e benefici anche alle imprese nello stesso ordine.

 

Le risorse messe a disposizione dall’Europa per il settennio 2014-2020, che fanno riferimento diretto all’attuazione dell’Agenda Digitale, ammontavano a 3,1 miliardi di euro. Sono stati presentati 16.855 progetti, di cui conclusi solo il 13 per cento, mentre ancora in corso il 73 per cento e non avviati il 12 per cento (dati OpenCoesione a febbraio 2019). Mancano meno di 18 mesi alla fine del 2020 e di quei miliardi stanziati da Bruxelles c’è il rischio di bruciarne circa il 50 per cento, inutilizzati: un miliardo circa di risorse di cui non si conosce ancora la progettualità, che si sommano a circa 700 milioni dei progetti esistenti ma che non risultano ancora avviati.

 

Contenere il deficit pubblico 2019 intorno al 2 per cento è stata una scelta che ha sbollito i timori riposti nella tentazione di volersi tenere le mani libere su deficit e debito pubblico

Potrei continuare a lungo, ma diventerebbe troppo simile a un cahier de doléances, mentre qui davanti a noi non c’è nessuna Assemblea degli Stati Generali alla quale presentarli. Da tutti questi dati si possono dedurre conclusioni certo diverse. Magari, maggioranza e governo possono anche legittimamente ritenere dal loro punto di vista che il deludente andamento dell’economia italiana e la nuova stagnazione in cui siamo entrati sia dovuta alle colpe di chi li ha preceduti, o soprattutto a fenomeni esogeni non in nostro controllo: dai mercati internazionali alle regole su cui restano incardinati i princìpi di fondo dell’Unione europea in materia di deficit, debito e finanza pubblica.

 

Ma io da presidente di Assolombarda e da imprenditore è al mondo produttivo che devo dar voce. Noi abbiamo cominciato, appena si sono manifestati i primi segni del rallentamento italiano, a dire incessantemente che occorreva uno sforzo straordinario per mettere in sicurezza alcuni pilastri di fondo della ripresa italiana. Ma non siamo stati ascoltati. Né sull’inopportunità di dichiarazioni continue di esponenti della maggioranza che hanno fatto alzare lo spread. Né sull’autolesionismo del braccio di ferro con l’Europa sulle fantasmagoriche previsioni di crescita e sullo sfondamento del deficit precedentemente contrattato con Bruxelles in occasione della scorsa legge di Bilancio, esitato poi in una precipitosa marcia indietro e in una completa riscrittura della manovra 2019, negli ultimi giorni utili prima della sua approvazione parlamentare a scatola chiusa. Non siamo stati ascoltati sulle opere pubbliche. Né su Industria 4.0.

 

Le imprese pensano che si sia trattato di un enorme esercizio di miopia. Le forze di governo hanno anteposto a tutto ciò che loro vedevano bene come proprio interesse elettorale a breve, quota 100 e reddito di cittadinanza. Ma hanno perso di vista ciò che a loro appariva come sfocato e molto meno interessante, una seria e sostenibile prospettiva di sostegno alla crescita, che dalla fine del 2013 aveva pian piano preso velocità e spessore. Man mano che i dati della stagnazione si infittivano, abbiamo dovuto aspettare per cinque mesi che si compisse la campagna elettorale in vista delle europee, prima di veder approvati i decreti cosiddetti crescita e sblocca cantieri. Che sono rimasti nella versione finale ben diversi da quanto avevamo chiesto.

 

E ora, visto il crescendo delle divisioni e delle polemiche tra loro, rischiamo di dover aspettare altri mesi di esasperanti polemiche, prima che si chiarisca la volontà di proseguire o dismettere la loro collaborazione di governo. Questo è il quadro in cui ci troviamo.

 

A questo punto, una domanda rituale. Anzi, un’obiezione scontata che viene da ogni diverso governo negli anni, quando le imprese lamentano quel che si poteva fare e non si è fatto.

 

Una coalizione nata per effetto di un cosiddetto “contratto di governo”, stipulato tra due parti che in campagna elettorale erano avverse, ha finito spesso per comprimere il ruolo costituzionale affidato a Palazzo Chigi

Solo ombre e niente luci, vedono le imprese? Ma non vi rendete conto che Lega e Cinque stelle contano ben oltre il 50 per cento totale dei consensi? Rappresentare gli imprenditori, le loro valutazioni, aspettative e proposte, è tutt’altra cosa.

 

Noi rispettiamo il ruolo dei partiti, i risultati delle elezioni, e chiediamo a tutti nella vita pubblica di rispettare le superiori prerogative e regole delle istituzioni. Ecco perché quando parlo per Assolombarda, io non redigo programmi elettorali per il consenso popolare. Come per chiunque rappresenti imprenditori, il nostro compito è batterci perché si tenga ferma la barra sulla rotta dello sviluppo. Se alla politica dà fastidio, non sappiamo cosa farci. Il nostro compito non è far tifo per questo o per quello. Noi tifiamo solo Italia.

 

Aggiungo: quella degli imprenditori lamentosi è una favola triste, del tutto infondata. Senza l’ottimismo della volontà non esisterebbe un solo imprenditore al mondo. E tanto meno in Italia, con tutte le difficoltà oggettive che si frappongono alla libera impresa nell’ordinamento tributario, amministrativo e civile. E che vengono regolarmente certificati e confermati da decenni in ogni ranking internazionale, come ad esempio il Doing Business della Banca Mondiale.

 

Dunque, non mi sottraggo certo a indicare qualcosa che alle imprese non è dispiaciuto. Ci è piaciuta ad esempio la grande alleanza pubblico-privato che ha portato al successo la candidatura di Milano-Cortina per le Olimpiadi invernali del 2026. Su quel dossier si sono sprigionate, nel volgere di poche settimane, tutte le convergenze operative necessarie a fronteggiare una sconfitta che sembrava segnata, quando Torino declinò la disponibilità a compartecipare. Al contrario, non solo lo spirito del fare lombardo e veneto hanno trovato rapidamente tutte le intese necessarie per identificare impianti esistenti o da riadattare per contenere in modo straordinario i costi, come la nuova filosofia del Cio richiedeva. Ma è stato possibile registrare un’ampia disponibilità dei privati e della comunità delle imprese a essere pienamente coinvolti nello sforzo. Coni e governo hanno fatto la propria parte, insieme alle due regioni e al sindaco di Milano. Nessuna divisione politica, solo la massima convergenza per ottenere il risultato. Che è puntualmente venuto, nello stesso spirito che ha realizzato il grande successo di Expo 2015 a Milano.

 

Abbiamo apprezzato la scelta di realismo che ha condotto il presidente Conte e il ministro dell’Economia Tria a evitare che la nota di aggiornamento del Bilancio 2019 si trasformasse in un’inutile e rischiosa nuova sfida all’Europa e ai mercati. Contenere il deficit pubblico 2019 intorno al 2 per cento, bloccando la spesa inutilizzata di quota100 e reddito di cittadinanza e destinando a questo fine il sovragettito tributario dovuto alla fatturazione elettronica obbligatoria e a entrate straordinarie, è stata una scelta che ha sbollito i timori riposti nella tentazione più volte nuovamente dichiarata di volersi tenere le mani libere su deficit e debito pubblico. Ciò ha immediatamente bloccato la temibile procedura d’infrazione europea che gravava ormai sulle nostre teste e che avrebbe significato anni di vigilanza molto più rigida sui nostri conti. Ha anche comportato l’impegno – la cui vigilanza spetta alla nuova Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen – di contenere il deficit 2020 a un’ulteriore discesa rispetto al 2 per cento del pil. Obiettivo che ci aspettiamo la politica sappia che, a questo punto, va rispettato rigorosamente.
Non ci è dispiaciuto il ruolo che il presidente Conte ha svolto al tavolo delle scelte europee, nei giorni decisivi che hanno portato alla scelta intergovernativa del binomio formato dalla Lagarde alla Bce e dalla von der Leyen alla guida della Commissione. Se l’Italia si fosse tenuta fuori da tutto in nome di un no pregiudiziale, sarebbe rimasta completamente isolata nelle future scelte europee. Un errore che anche Orbán si è guardato bene dal compiere.

  


L’intesa con la Cina, la recente vicenda moscovita: meno equivoci l’Italia genera sulla solidità delle proprie scelte internazionali, meglio è per la nostra economia. L’importanza della prossima legge di Bilancio. Aumentare la spesa corrente e tagliare gli investimenti pubblici, gli errori della politica in questi anni


 

Non spetta a noi formulare osservazioni sul particolare rapporto esistente tra il presidente Conte e i due partiti della maggioranza. Quel che si è reso evidente in un anno è che la Costituzione affida al presidente del Consiglio l’indirizzo politico del governo ma una coalizione nata senza essere stata sottoposta al giudizio dei cittadini e per effetto di un cosiddetto “contratto di governo”, stipulato tra due parti che in campagna elettorale erano avverse, ha finito spesso per comprimere il ruolo costituzionale affidato a Palazzo Chigi. In termini di stabilità, non è una buona cosa. 

 

Essa ha finito, infatti, per aprire spazi sempre più vasti prima alla polemica e poi allo scontro aperto tra le due componenti della maggioranza, su un numero crescente di materie fondamentali dell’attività di governo. Difficile dire ora se sussista ancora un margine operativo rilevante per affermare di fronte alle tensioni interne al governo un ruolo di guida da parte di Palazzo Chigi. Certo sarebbe una significativa manifestazione di senso di responsabilità. Perché le partite aperte di fronte a noi, se vogliamo riprendere in mano le redini della crescita, sono plurime ed essenziali. A partire proprio dall’Europa.

 

La trattativa per il membro designato dall’Italia all’interno della Commissione europea e la successiva audizione di conferma in Parlamento sono in grado, se condotte con equilibrio calibrato, di superare nell’interesse nazionale sia il rischio di un portafoglio che non abbia rilevante ruolo e impatto economico – obiettivo che dovrebbe costituire la priorità agli occhi delle imprese – sia quello che in Parlamento ci si trovi ad affrontare sul designato ipotesi di veti e bocciature, che rispecchino ancora il voto difforme espresso sulla presidente von der Leyen da parte di Lega e Cinque stelle. Serve una figura di alta e riconosciuta competenza, più che di espressione diretta di partito: pensando al fatto che la Commissione secondo i Trattati vigenti è l’organo che ne custodisce e applica i princìpi, non la somma di delegazioni nazionali che si manifesta invece nella sfera intergovernativa del Consiglio europeo.

 

Solo se l’Italia potrà avere una voce autorevole e riconosciuta come tale in Commissione, potremo avere più forza nel perseguimento degli obiettivi che restano incompiuti come quelli, per esempio, relativi al terzo pilastro ancora mancante all’Unione bancaria, quello che fa ancora mancare uno strumento cooperativo europeo e di adeguata capienza per la tutela dei depositi. Solo così potremo avere miglior voce in capitolo nel processo di esame critico degli aggiustamenti da introdurre dopo i primi anni di vigenza di strumenti come la vigilanza comune bancaria per le maggiori banche europee, e come le norme in materia di risoluzione bancaria che tanti dubbi hanno sollevato.

 

Ma più in generale ancora, sulla politica internazionale, il rischio evidente cui ci troviamo esposti è quello di aver ingenerato equivoci di fondo agli occhi dei nostri partner europei e alleati occidentali.

 

La prima grande misura su cui concentrarsi dev’essere un abbattimento permanente, strutturale e universale del cuneo fiscale

Ha pesato la firma dell’intesa politica con la Cina, con l’Italia unico paese fondatore della Ue e unico del G7 ad averla sottoscritta. E pesa anche la recente vicenda moscovita, a maggior ragione dopo la recente intervista al Financial Times di Putin, in cui era evidente un giudizio quasi sprezzante verso i valori liberaldemocratici e di mercato che sono il fondamento della Ue come della Nato, rappresentati come declinanti nella storia.

 

Meno equivoci l’Italia ingenera sulla solidità delle proprie scelte internazionali, meglio è per la nostra economia. Isolati in Europa e nella Nato diventeremmo una specie di Serbia del Mediterraneo. Mentre l’interesse strategico del nostro paese, dovuto alla forte interdipendenza economica realizzata negli ultimi decenni moltiplicando le catene del valore in cui sono inserite le nostre imprese, si declina solo con la più decisa appartenenza alla dimensione comune del mercato europeo, condizione per non essere trascurabili nani in un mondo tornato a gestire il commercio mondiale attraverso muscolari rapporti bilaterali tra grandi potenze. E altresì con una ribadita coesione ai valori di libertà che sono propri della Nato.

 

Decisioni come quella assunta dal governo di rinunciare alla priorità del gasdotto Poseidon, che dai campi di gas sottomarini tra Israele e Cipro sarebbe giunto in Italia diminuendo la nostra dipendenza da Russia e Algeria, a molte cancellerie occidentali sono apparse caudatarie degli interessi di Mosca. E non è un caso infatti che da Washington sia venuto un reiterato invito a esaminare l’ipotesi di importare gas liquido per via marittima dagli Usa, che ne sono diventati negli ultimi due anni esportatore netto grazie alla rivoluzione tecnologica dello shale gas che ha riportato gli Usa al rango di primo paese produttore di fonti fossili.

 

Venendo alle scelte nazionali, decisiva è la prossima legge di Bilancio. Rispetto alla quale le imprese non solo hanno le idee chiare, ma le hanno già espresse per tempo, mentre a tutt’oggi non è dato capire su quale orizzonte concreto di misure e coperture si muova il governo.

 

Innanzitutto, occorre però una premessa. Sulla spesa pubblica, sulla spesa sociale e sul fisco. Per senso di responsabilità nazionale, bisognerebbe fare una grande operazione-verità, che ci liberasse una volta per tutte dal mantra che piace molto alla politica, e in questo caso alla politica in senso davvero trasversale, poiché a ripeterlo all’unisono sono sia le forze di maggioranza sia di opposizione. Mi riferisco alla parola d’ordine “basta con l’austerità”, declinata immancabilmente contro l’Europa che ce l’avrebbe imposta. I numeri dicono che dal 2008 al 2018 abbiamo accumulato altri 553 miliardi di nuovo debito pubblico, pari al 23 per cento dell’intero ammontare a cui oggi è arrivato. E questo malgrado la Bce di Mario Draghi ci abbia fatto risparmiare oltre 89 miliardi in termini di minori interessi sul debito pubblico. Nel 2007 il rapporto debito pubblico/pil era leggermente sotto il 100 per cento. Oggi siamo al 133 per cento. Altri paesi europei di fronte alla crisi hanno innalzato di decine di punti il proprio debito. Alcuni di essi, sottoponendosi però ad aiuti vincolati che hanno pesato molto sulle loro politiche di bilancio e sulle riforme adottate a livello nazionale, in materie come pensioni, mercato del lavoro e concorrenza. Ma essi avevano spazio fiscale per accrescere il debito nelle difficoltà e, grazie agli aiuti vincolati, hanno realizzato riforme che ne hanno rialzato il tasso di crescita e medie che noi ci sogniamo: è questa la chiave di ciò che per esempio è avvenuto nei due paesi iberici. Noi invece, abituati alla crescita del debito sia durante la congiuntura favorevole sia a maggior ragione nelle recessioni, non abbiamo spazio fiscale per farlo aumentare significativamente quando serve, senza destare preoccupazioni crescenti sulla nostra solvibilità. E’ questo il motivo per cui il nostro spread – sia quando è risalito nel corso di questo ultimo anno sino a superare i 300 punti, da 130 a cui si collocava a maggio 2018, sia quando è ridisceso sotto quota 200 grazie alle politiche accomodanti confermate recentemente per l’orizzonte futuro da Bce e Fed – è diventato strutturalmente superiore rispetto a quello di Spagna e Portogallo, malgrado i fondamentali della nostra economia produttiva siano ben più solidi.

 

Che cosa ha fatto la politica in questi anni? Ha scelto di aumentare la spesa corrente e di tagliare gli investimenti pubblici. Ma se questa è la scelta che ha accomunato i governi, ognuno di essi ha accumulato strumenti e scelte diverse sulla spesa sociale, nessun disegno organico per razionalizzare e ottimizzare i tantissimi strumenti diversi esistenti nel contesto nazionale e locale. Così rispetto al 2008 la parte di spesa sociale a carico della fiscalità generale – al netto cioè dei contributi previdenziali e delle entrate tributaria per finanziare la sanità – è passata da 73 a 116 miliardi, con 43 miliardi di spesa strutturale in più! Renzi con il suo bonus 80 euro di 9,4 miliardi l’anno e la decontribuzione ai contratti a tempo indeterminato di quasi 17 miliardi in tre anni. Gentiloni ha ampliato la quattordicesima mensilità da meno di 2 milioni di soggetti a oltre 3,5 milioni, poi l’Ape social e l’estensione progressiva delle salvaguardie rispetto alla riforma previdenziale Fornero. Fino al reddito di cittadinanza, sia pur con paletti limita-spesa posti dal Mef rispetto ai 780 euro promessi, le cui domande accolte sono ancora inferiori al milione rispetto a una platea potenziale calcolata in quasi il 30 per cento superiore. E ai nuovi prepensionamenti di quota 100, anche in questo caso richiesti però da quasi il 50 per cento in meno rispetto ai beneficiari potenziali stimati.

 

La nuova realtà del lavoro è che non sono le imprese malvagie a volere lavoro a tempo: esse si sono dovute abituare ai cicli corti e asfittici della domanda interna, e ai cicli erratici di quella estera

L’aggravio complessivo alla fiscalità generale dimentica che esso finisce per pesare su una piramide di contribuenti risultanti all’Anagrafe tributaria che è in realtà molto più asfittica di quanto molti ritengano. Come recentemente ripreso dai quotidiani, a versare imposte è solo poco meno del 40 per cento totale della popolazione, che paga anche circa il 50 per cento del totale della spesa sanitaria di 114 miliardi. Il 12,3 per cento degli italiani paga il 58 per cento dell’intera Irpef. Il 46 per cento ne versa solo il 2,6 per cento del gettito. Un altro 14 per cento versa imposte inferiori ai 1.870 euro procapite annui di spesa sanitaria.

 

A tutto questo la politica ha aggiunto la progressiva erosione dell’imponibile Irpef attraverso ondate successive di forfait per tipo di reddito: abbiamo aliquote fisse sui redditi da capitale diverse a seconda che si applichino a titoli pubblici o ad altri titoli o a capital gains e redditi da partecipazione; aliquote fisse distinte per redditi immobiliari a seconda del tipo di contratto di locazione; aliquote agevolatissime per attirare pensionati dall’estero, forfait per gli sportivi stranieri, per le lezioni private degli insegnanti; l’aliquota del 15 per cento per autonomi fin a 65 mila euro e del 20 per cento fino a 100 mila euro di ricavi. E ora si vorrebbe aggiungere un nuovo maxi forfait ma questa volta sui redditi familiari e non individuali, per le famiglie fino a 55 mila euro, ma con la rinuncia a detrazioni e deduzioni e libera scelta per i contribuenti di mantenere il regime fiscale precedente, tutti dettagli essenziali ma sin qui mancanti per una seria e realistica stima ex ante del minor gettito e delle sue necessarie coperture.

 

Siamo chiari: la proliferazione dei forfait risponde all’individuazione discrezionale di fette crescenti di contribuenti da avvantaggiare per tornaconto elettorale, ma checché dica la politica non è affatto una flat tax. Per definizione una flat tax ha un’aliquota unica, resa progressiva per la somma di un minimo vitale esentasse e attraverso deduzioni e detrazioni inversamente proporzionali al reddito, ed è infine tendenzialmente neutra rispetto ai tipi di reddito, siano da lavoro autonomo o dipendente, mobiliari o immobiliari, di persone fisiche o d’impresa. Niente di tutto questo è in opera in Italia. La moltiplicazione dei forfait crea ogni volta effetti correlati di soglia oltre la quale continua a scattare l’iperprogressività Irpef, con ovvie conseguenze di comportamenti elusivi e di arbitraggio per avvantaggiarsene, nonché aggravando l’iniquità a svantaggio della frazione iperminoritaria di contribuenti su cui finisce per gravare il più del gettito tributario, e tutto questo indipendentemente da stime attendibili degli effetti reali su consumi, domanda interna, e propensione al risparmio e agli investimenti. A maggior ragione poiché nel frattempo si è ridata facoltà agli enti locali di aumentare il prelievo fiscale su cittadini e imprese. Senza contare i 23,1 miliardi di clausole di garanzia fiscale antideficit, da sventare attraverso tagli di spesa per impedire che si traducano in aumenti di Iva e accise che avrebbero un ovvio effetto recessivo in un’economia già stagnante.

 

Da queste tre premesse su spesa, spesa sociale e fisco vengono le nostre precise richieste sulla legge di Bilancio. No a un deficit superiore a quello 2019. No al nuovo forfait Irpef: già oltre 23 miliardi di tagli di copertura vera e attendibile da reperire per i mancati aumenti Iva sono opera improba, rispetto a quel che si è visto sinora. No a coperture fantasiose dell’ultima ora, come i vertiginosi 18 miliardi di entrate da dismissioni annunciati in legge di Bilancio. Quando invece si ristatalizza Alitalia senza avere ancora un credibile piano industriale, dopo 26 mesi di commissariamento.

 

Tutti gli interventi devono essere invece concentrati sulla priorità del rilancio del pil potenziale, sia sul lato offerta sia su quello della domanda. Ecco perché la prima grande misura – a cui devolvere l’intera spesa non impegnata di quota 100, reddito di cittadinanza e l’equivalente del bonus 80 euro – su cui concentrarsi è un abbattimento permanente, strutturale e universale del cuneo fiscale (oggi pari a 47,9 punti percentuali), la maggiore anomalia che grava insieme su occupabilità dei lavoratori e bilanci delle imprese.

 

Abbiamo detto e ripetiamo che si deve partire da un intervento totalmente a favore dei lavoratori mediante un aumento delle detrazioni di lavoro dipendente. Questa è l’unica vera misura strutturale che innalza l’occupabilità, cioè può aumentare significativamente il numero dei lavoratori, aumenta la quota netta salariale da destinare a consumi e risparmi, e dà fiato alla finanza d’impresa.

 

Abbandoniamo una volta per tutte l’infondata ambizione della politica di destinare miliardi al fine di voler modificare a tavolino la tipologia della domanda di lavoro, che è stata perseguita sia attraverso la massiccia decontribuzione del tempo indeterminato con il Jobs Act, sia con il decreto Dignità, che la scorsa estate ha alzato oneri e abbattuto reiterabilità dei contratti a tempo, oltre ad aggravarne gli oneri amministrativi reintroducendo le causali.

 


La necessità del ripristino integrale di Industria 4.0 e di un Piano straordinario per il digitale. Imprese e sindacati, una battaglia comune per dire no al salario minimo per legge. La favola dei prepensionamenti per fare largo ai giovani. La forza dei contratti e dei nuovi accordi aziendali


 

Il recente Rapporto annuale Inps ci ha consegnato cifre eloquenti, il bilancio cioè di questa ambizione dirigista della politica. A dicembre 2018 infatti sono terminati gli effetti dell’incentivo anche per gli ultimi assunti del 2015. La spesa totale è stata di 16,7 miliardi di euro per 1,5 milioni di lavoratori che ne hanno beneficiato, 1,1 milioni di nuovi assunti e 398 mila trasformazioni in contratto a tempo indeterminato. Ma considerando il totale dei contratti avviati con l’esonero contributivo, dopo tre anni, solo il 54 per cento sono ancora attivi, mentre se guardiamo quelli avviati senza esonero la percentuale è del 50 per cento. Quasi la metà dei contratti di lavoro a tempo indeterminato agevolati è terminata entro i primi tre anni di vita, esattamente come avveniva nella media delle altre assunzioni in precedenza non decontribuite. E non per via di licenziamenti di massa da parte delle imprese. E’ semplicemente la conferma del fatto che il posto fisso a tempo indeterminato non è affatto più il sogno degli italiani come nel film di Checco Zalone. E’ una delle tante conferme della profonda trasformazione del lavoro in questi anni nelle nostre imprese. Sono i lavoratori stessi che decidono di cambiare o cercare un nuovo posto di lavoro. Alla ricerca di migliori retribuzioni, maggiori valorizzazioni del proprio capitale umano, nuove esperienze e competenze da maturare. Quando la politica lo capirà sarà sempre troppo tardi, rispetto a una condizione che noi abbiamo visto affermarsi in anni e anni. Ed è questa condizione che dovrebbe imporre politiche attive del lavoro centrate su strumenti performanti di accompagnamento alle transizioni, certificazione delle competenze, portabilità delle tutele, diritto alla formazione permanente. Tutte necessità da cui ci siamo allontanati ulteriormente, confondendo politiche attive del lavoro e lotta alla povertà nel reddito di cittadinanza.
Ecco perché chiediamo a maggior ragione un grande intervento di decontribuzione permanente e non a tempo, strutturale e non per tipo di contratto. La nuova realtà del lavoro è che non sono le imprese malvagie a volere lavoro a tempo: esse si son dovute abituare a cicli corti e asfittici della domanda interna, e cicli erratici di quella estera. Ma sono i lavoratori stessi, a non pensare più al posto fisso per una vita.

  

La seconda misura strutturale è il ripristino integrale di Industria 4.0: anzi potenziandola, se possibile. Solo il recente decreto Crescita ha riaffiancato il Superammortamento all’Iperammortamento. Ma la logica resta quella degli interventi a singhiozzo anno per anno: il che impedisce ogni seria programmazione pluriennale degli investimenti da parte delle imprese.

 

Serve un Pacchetto Unico per la crescita dell’impresa che colleghi Iperammortamento e Superammortamento, legge Sabatini, incentivi a Ricerca & Sviluppo, incentivi alla formazione, e incentivi all’internazionalizzazione, alla promozione e alla commercializzazione all’estero. 

 

Serve riprendere di buona lena le riunioni del Comitato strategico Industria 4.0 mai più riunito da questo governo, gravato da pregiudizi contro le grandi e medie imprese. Come puntualmente confermato dai casi Arcelor-Mittal e Autostrade.
Serve un Piano straordinario per il digitale, altrettanto strutturale e pluriennale, poggiato su quattro pilastri: sviluppo delle competenze per preparare le professionalità al nuovo modo di lavorare, accelerare il piano triennale per la digitalizzazione della Pubblica amministrazione, incentivare la trasformazione delle imprese e sviluppare in fretta le reti 5G e banda ultralarga. Un Piano che finalmente si decida a far parlare e coordinare tra loro i troppi soggetti pubblici che, a livello centrale e periferico, rendono inefficiente la spesa attuale in digitale della Pa. E servirebbe, naturalmente, la lista delle opere pubbliche da sbloccare che ci aspettavamo dal decreto sblocca-cantieri, e che il decreto non ci ha dato. Abbiamo dovuto aspettare un anno prima che sulla Tav Conte desse ragione alla straordinaria mobilitazione che realizzammo a Torino, insieme a tutte le altre Confindustrie del nord e a tutte le altre maggiori associazioni d’impresa e sindacali. Meglio tardi che mai? No, non dobbiamo ragionare così. Nel frattempo, un anno si è perso ed è esattamente la sintesi di ciò che le imprese sono stanche di subire.

 

Voglio concludere con una riflessione finale: dedicata al nostro ruolo di rappresentanza delle imprese. Non trovo corretto parlare di “Partito del pil”, di cui farebbero parte imprese e lavoratori insieme: non è una lista elettorale, è una lista di priorità. Come ho detto, non vogliamo e non dobbiamo pensare di sostituirci al corpo elettorale. La nostra Italia merita serietà. E la prima prova di serietà sarebbe quella di evitare la convulsa serie di convocazioni plurime di associazioni datoriali e sindacali, per partecipare a parate di partito.

 

C’è un presidente del Consiglio: ci faccia sapere lui quando, dove e con chi incontrarsi per parlare di quel che il governo vuole fare con la manovra, con indicazione precisa di obiettivi, deficit e relative coperture. Perché un governo unitario o c’è o non c’è: non è possibile comportarsi come se ce ne fossero tre in uno.

 

Un’ultima cosa. Insieme, imprese e sindacati, dobbiamo ingaggiare subito una battaglia contro l’idea pericolosa di un salario minimo per legge superiore all’80 per cento del salario mediano italiano rilevato dall’Istat. A differenza della media del 40-55 per cento in cui esso è stabilito nella stragrande maggioranza dei diversi paesi in cui è vigente, dal Regno Unito alla Spagna agli Usa.

 

Siamo il paese nella cui industria e manifattura oltre il 95 per cento dei dipendenti è coperto da contratti nazionali di lavoro, e la percentuale è superiore all’80 per cento del totale degli occupati dipendenti italiani. Un salario minimo creerebbe difficoltà anche ai salari contrattuali pattuiti, indurrebbe molte imprese a fare marcia indietro su ciò che sempre di più oggi si tratta col sindacato nelle retribuzioni: premi di produttività ma non solo, welfare aziendale, formazione continua, prestazioni assicurative. E il salario minimo per legge obbligherebbe a riparametrare di conseguenza anche le retribuzioni delle altre qualifiche contrattuali, con un onere di molti miliardi per le imprese.

 

Il vero problema dei contratti privati che abbattono le retribuzioni in alcuni comparti è la rappresentanza bassissima dei sindacati di comodo (di entrambe le parti) che li firmano: e su questo col sindacato confederale siamo completamente d’accordo, la risposta sta nelle verifiche delle soglie di rappresentanza e nelle norme pattuite insieme nel patto per la fabbrica, non in un salario minimo che comprimerebbe diritti e libertà delle parti sociali di definire nei luoghi di lavoro l’Italia nuova dei diritti e dell’integrazione sociale. Ma la sfida è molto più ampia. Con i contratti si costruisce insieme – come avvenuto con l’ultimo dei metalmeccanici – l’accesso alla formazione permanente alle nuove competenze del lavoro come diritto-dovere fondamentale della persona.

 

E’ questa la vera risposta alla marcia indietro fatta dalla politica sull’alternanza scuola-lavoro e sull’istruzione duale, cui sempre più dovremmo avviare la nostra offerta formativa nel ciclo secondario e terziario dell’istruzione pubblica. Con i contratti si può decidere insieme su salari che tengano conto delle diverse curve di costo tra nord e sud e, a livello differenziato, anche all’interno delle stesse aree geografiche, esattamente come la politica non sarà mai pronta a fare. Con i contratti si potranno stabilire le nuove forme di tutela per interi settori che occorre far decollare e non ostacolare, come l’intera filiera della sharing e della digital economy. Con i contratti, diversi per ogni filiera e perimetro aziendale, si possono e devono realizzare quelle forme di tutoraggio ai giovani da parte dei lavoratori over 60 che restano occupati ma con impegni meno usuranti rispetto alle coorti più giovani, come da decenni avviene nei contratti aziendali del nord Europa, in modo da assicurare occupabilità insieme a giovani e anziani invece di credere nella sciocchezza dei prepensionamenti per far largo ai giovani. Con i contratti si assicura meglio la conciliazione dei tempi lavoro con quelli della cura parentale, che le leggi pubbliche e le fiscal expenditures continuano invece ad accollare alle donne scoraggiandole dal lavoro.

 

Non è un sogno, pensare che l’Italia del lavoro e delle imprese abbiano più buon senso e migliore volontà della politica di dare risposte concrete a queste sfide di medio-lungo periodo. E’ la realtà che tutti noi imprenditori conosciamo e pratichiamo, quella di un buon senso enormemente più diffuso nelle nostre imprese, tra noi e i nostri collaboratori, di quanto non troviamo invece nell’astio e nell’odio di cui è intirizzito il confronto pubblico e politico nel nostro paese. E’ la realtà che nei territori ci porta a tutte quelle centinaia di nuovi accordi aziendali trasformativi di cui da anni Dario di Vico scrive regolarmente sul Corriere.

 

E’ lì, il cuore dell’Italia che va avanti. Non saranno le minacce della politica a impedirci di dar voce a quest’Italia, che merita di meglio.

 

Carlo Bonomi è presidente di Assolombarda