Viagra alle fusioni
Un’altra stagione di tassi bassi incentiva i matrimoni tra colossi. Non solo il caso Pfizer e Mylan
Milano. Il Viagra, la medicina contro l’impotenza che ha fatto dell’americana Pfizer la potenza numero uno dei farmaci, cambia casacca verso l’olandese Mylan. Assieme al Lipitor, la medicina più nota per il trattamento del colesterolo, e ad altri ritrovati (per esempio Lyrica, l’antiepilettico usato anche per la terapia dell’ansia), che hanno reso per decenni miliardi di dollari al colosso americano. Ma più che di una cessione si tratta di un gigantesco trasloco di know-how, motivato dalla scadenza dei brevetti e dall’irruzione sulla scena dei produttori indiani, cioè i più rapidi a prendere il posto dei giganti americani che, per tutta risposta, hanno alzato l’asticella della ricerca. E così ieri Wall Street, in attesa del calo dei tassi da parte della Federal Reserve nella sua riunione del comitato di politica monetaria che inizia domani, ha assistito una gigantesca operazione di trapianto, così ben riuscita che la fusione con Mylan, il gigante dei farmaci generici in ambasce per la concorrenza sul mercato dei generici (meno 75 per cento in Borsa nell’ultimo anno), non produrrà alcuna uscita di capitali, a beneficio del fisco.
Pfizer, infatti, apporterà la sua divisione dei farmaci non più protetti da brevetti, denominata Upjohn (e domiciliata a Shanghai) alla Mylan, in grave difficoltà da quando, nel 2016, i vertici dell’azienda sono stati chiamati al Congresso americano a spiegare – senza riuscirci – le ragioni dell’aumento del 550 per cento del prezzo dell’Epipen, un farmaco salvavita. Acqua passata: dalla fusione, che darà vita a una nuova società domiciliata ad Amsterdam, nascerà un colosso con un giro d’affari di 20 miliardi di dollari (più 24,5 miliardi di debiti). Una notizia che ha spinto al rialzo gli altri leader del segmento dei generici, dall’americana Lannett all’israeliana Teva, ma che non esaurisce la metamorfosi di Pfizer. Quest’ultima ha di recente ceduto i farmaci da banco a una joint venture con Glaxo per investire più di dieci miliardi di dollari in un antitumorale frutto della ricerca biotech. Una metamorfosi miliardaria, rapida e radicale di un colosso che sa di non potere campare di rendita, come dimostra la parabola del Viagra, passata da “gallina dalle uova d’oro” a semplice commodity nel giro di una generazione.
I mercati finanziari, del resto, non faticano di questi tempi a finanziare le imprese più costose o più ardite, come dimostra il successo dell’Ipo di Bridge Bio, una startup biotech di Silicon Valley sostenuta da diversi private equity, soggetti finora restii a rischiare in un settore in mano ai venture capital, che per definizione si tuffano sulle startup.
E’ la prospettiva di una lunga stagione di tassi bassi – che rende più difficile fare quattrini con il credito, ma meno care le scommesse finanziarie – ad esaltare il ruolo dei private equity a caccia di buoni affari, a partire dalle ristrutturazioni. La stagione dei tassi bassi assicurati dalle Banche centrali, dalla Fed alla Banca centrale europea passando per la Bank of England, infatti proseguirà come da indicazioni dei banchieri stessi da entrambe le sponde atlantiche e non solo. E’ quindi possibile per le imprese finanziarsi a sconto e tentare così concentrazioni di settore con acquisizioni dei concorrenti.
In questa chiave l’affare dell’anno (o del mese) potrebbe essere quello che si accinge a concludere Blackstone, che sta tessendo un’ardita operazione capace di cambiare il panorama dei servizi finanziari. Il London Stock Exchange – il promesso sposo respinto dalla Deutsche Börse per ben tre volte in passato – è la prima vittima della Brexit e ha annunciato l’intenzione di acquisire il controllo di Refinitiv, ovvero i terminali già di Thomson Reuters che sono stati rilevati proprio da Blackstone un anno fa. Una sorta di rivoluzione copernicana: se l’operazione andrà in porto la Borsa di Londra si trasformerà da semplice teatro di posa, che fa da domicilio all’attività di Borsa, a regista a protagonista centrale del business, in quanto si farà forte del controllo dei dati e dell’identità dei flussi finanziari. Non a caso le cifre in gioco sono enormi: più di 27 miliardi di dollari, una valutazione che si giustifica con la prospettiva di strappare il controllo del mercato a Bloomberg, l’indiscusso padrone dei dati. Per Blackstone, il deal potrebbe tradursi, spiega il Financial Times, in profitti da favola: in meno di due anni l’operazione potrebbe chiudersi con il raddoppio dei 4 miliardi investiti.
Ma sotto i cieli della Brexit altri operatori stanno lavorando ad accordi miliardari. Il fondo attivista Cat Rock, che da mesi sta mettendo sotto pressione le due principali società europee di consegna a domicilio di cibo, ha raggiunto il suo scopo ieri: l’olandese Takeway.com e l’inglese Just Eat hanno annunciato l’accordo preliminare per una fusione tramite scambio di azioni. Il deal valuta il gruppo combinato, uno dei maggiori nel settore, per circa 8,2 miliardi di sterline (pari a 7,3 miliardi di euro). Mica male per il fattorino della pizza. La City ha subito premiato l’operazione, da cui nascerà un gruppo capace di effettuare 360 milioni di consegne in un anno con un forte rialzo dei titoli Just Eat, saliti, per la gioia di Cat Rock, del 15 per cento in una mattinata. La sede? Amsterdam, ovviamente, destinata a essere la meta ideale in questa stagione di merger miliardari.
Tutto all’ombra di tassi deboli che, almeno in questi casi, hanno il merito di aprire la strada a nuove occasioni di business, consigliate solo ai cuori forti.
tra debito e crescita