Un anno di "cambiamento" ha bloccato l'Italia
Il nostro paese ha subito un peggioramento sostanziale, causato dal venir meno di una benché minima politica industriale e di sostegno dei redditi
La crescita congiunturale zero del Pil italiano nel secondo trimestre rispetto al primo trimestre era in qualche modo attesa. Ma fa una certa impressione vedere scritto nero su bianco nel comunicato Istat che un indicatore più strutturato come la variazione tendenziale annua del nostro prodotto, cioè quella rispetto al secondo trimestre 2018, è anch’essa pari a zero. Soprattutto confrontando questo numero con un aumento tendenziale flash dell’1,3 per cento della UE-28 e dell’1,1 per cento medio di una Eurozona pur appesantita dal rallentamento tedesco, oltre che nostro.
Anche la nostra variazione acquisita nel 2019, cioè quella che il Pil italiano avrebbe a fine anno se non vi fosse più crescita nei prossimi due trimestri, risulta dopo il primo semestre uguale a zero. Mentre la variazione acquisita della Francia, per fare un esempio, è già a più 1 per cento a metà percorso. Se anche il Pil italiano aumentasse dello 0,2 per cento sia nel terzo sia nel quarto trimestre del 2019, l’anno chiuderebbe comunque, secondo le previsioni di Prometeia, solo a un misero più 0,1 per cento, per effetto dell’eredità acquisita dalla recessione del secondo semestre 2018 e della stagnazione del primo semestre di quest’anno. Il bilancio del 2019 potrebbe poi essere persino peggiore se il terzo trimestre, iniziato maluccio secondo Confindustria, non dovesse centrare la previsione attesa dall’istituto bolognese.
Nel secondo trimestre 2019 la stima preliminare dell’Istat rileva una diminuzione congiunturale del valore aggiunto dell’industria e dell’agricoltura e una crescita del valore aggiunto dei servizi non in grado però di evitare una dinamica complessivamente piatta. Dal lato della domanda, invece, è tutto fermo. Infatti, la variazione congiunturale è nulla non solo per la domanda estera ma anche per quella interna (al lordo delle scorte). Dunque, non si può scaricare tutta la colpa di questa crisi sul rallentamento dell’automotive tedesco perché anche il nostro mercato domestico è ormai completamente paralizzato, con una crisi profonda degli investimenti delle imprese e una insufficiente spinta dei consumi delle famiglie.
Di questo passo potrebbero presto venirsi a determinare ripercussioni negative ulteriori sul mercato del lavoro. L’esecutivo giallo-verde non può consolarsi con il record storico del tasso di occupazione a giugno attribuendoselo come se fosse esclusiva opera sua. Anche perché da quando è attivo il governo Conte il tasso di occupazione è migliorato di soli 0,5 punti percentuali. E non si troverebbe oggi ai massimi storici se prima non fosse cresciuto di ben 3,3 punti con i governi Renzi e Gentiloni.
Gli occupati totali a giugno sono diminuiti di 6 mila unità rispetto a maggio: una situazione definita dall’Istat “stabile” dopo i recuperi dei mesi precedenti. Ma è un dato di fatto che in un anno di governo gli occupati sono aumentati di sole 101 mila unità mentre nei due governi precedenti vi era stata una crescita di oltre 1 milione e 100 mila posti di lavoro. Essendovi solitamente un certo sfasamento tra la dinamica dell’economia e quella del mercato del lavoro, vi è ora il concreto rischio che i pur timidi miglioramenti dell’occupazione registratisi negli ultimi mesi si rivelino presto dei fuochi di paglia. Specie se il Pil dovesse ulteriormente deludere nei prossimi due trimestri.
In un anno l’economia italiana, che pure aveva raggiunto nel 2017 tassi di crescita come non si vedevano da tempo, si è completamente bloccata. Il “cambiamento” promesso si è trasformato in un peggioramento sostanziale, causato dal venir meno di una benché minima politica industriale e di sostegno dei redditi. La fiducia delle imprese è svanita, gli investimenti sono crollati e la pressione fiscale è in graduale crescita. Il bilancio finale di tutto ciò è una stagnazione da cui non sarà facile uscire senza un vero “cambiamento”.