Tutte le ragioni per cui le tasse aumenteranno (nonostante la propaganda)
Clausole di salvaguardia e impegni con l'Europa: ecco perché gli annunci del governo resteranno tali
Roma. Non c’è promessa più premiante in termini elettorali di quella della riduzione delle tasse. Tutti i politici – sebbene con modi e toni diversi – hanno assicurato che una volta al governo avrebbero tagliato la pressione fiscale. Lo ha fatto Silvio Berlusconi (“meno tasse per tutti”), Matteo Renzi (“niente mani nelle tasche degli italiani”), ma anche gli attuali Vice Premier Matteo Salvini (“la flat tax è pronta “) e Luigi Di Maio (“aboliamo il bollo auto”). Eppure, l’Italia continua a essere uno dei paesi europei con il livello di tassazione più elevato. L’anno prossimo, nonostante i continui annunci, la pressione fiscale è attesa, persino, aumentare. A certificarlo è lo stesso governo nel Documento di economia e finanza (prezioso strumento di fact checking) che evidenzia come nel 2020 la pressione fiscale salirà di 0,7 punti percentuali (dal 42 al 42,7 per cento): solo nel primo trimestre dell’anno in corso, l’Istat ha già registrato un incremento di 0,3 punti percentuali (dal 37,3 al 38). Le maggiori tasse, in particolare gli incremento di Iva, servono a finanziare le due misure chiave volute dai partiti di maggioranza, ossia il reddito di cittadinanza e quota 100. Il governo ha assicurato che gli aumenti Iva saranno “sterilizzati” e che, più in generale, le tasse scenderanno. Diversi elementi, però, inducono a credere che la legge di Bilancio 2020 sarà esattamente come la precedente. In sostanza, non ci sarà nessun cambiamento neanche per quanto riguarda il tema del calo delle imposte. Vediamo il perché.
Primo, il fardello del 2019. L’anno prossimo sarà necessario trovare 23 miliardi di euro per evitare un aumento delle tasse, non per finanziare la loro riduzione. Il governo si è, infatti, impegnato a bloccare le clausole di salvaguardia introdotte nella scorsa legge di Bilancio che contemplano l’incremento dell’Iva a copertura di misure di spesa già implementate.
Secondo, gli accordi con l’Europa. Il premier Giuseppe Conte e il ministro dell’Economia Giovanni Tria hanno assicurato che l’Italia rispetterà i vincoli fiscali europei che prevedono di riportare il rapporto debito/pil su una traiettoria decrescente. A tal fine, l’avanzo primario (la differenza tra entrate e uscite al netto della spesa per interessi) deve essere mantenuto intorno al 2 per cento del pil visto che, come evidenziato dalla Banca d’Italia, l’Italia ha un costo medio del debito superiore al tasso di crescita nominale (unica economia della zona euro a trovarsi in questa situazione). Mancano, inoltre, all’appello i 18 miliardi di privatizzazioni già contabilizzati nelle stime del debito elaborate dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Pertanto, un eventuale taglio delle tasse potrebbe essere possibile solo se accompagnato da un taglio della spesa di entità superiore tale da migliorare in modo significativo il saldo primario. E qui veniamo al terzo punto: il piano di spending review. L’esperienza ha dimostrato quanto l’efficacia dei programmi volti a ridurre, ma anche a riqualificare, la spesa dipenda dalla volontà politica. In Italia, mancano sia i programmi sia la volontà: Salvini è convinto che la flat tax si autofinanzi, Di Maio propone lo sfoltimento delle tax expenditures, già promesso in campagna elettorale per circa 40 miliardi (40 miliardi?) e mai attuato.
A conti fatti, in assenza di un piano credibile di riduzione della spesa, spazi per diminuire le tasse non ci sono. Il rischio è quello di una legge di Bilancio simile a quella dello scorso anno dove i due leader dei partiti di maggioranza – nonostante le tante promesse – hanno scelto di coprire le spese con un aumento del debito e della pressione fiscale. Quest’ultimo è stato “nascosto” attraverso il ricorso alle clausole di salvaguardia che consentono di prendere tempo e rimandare il problema all’anno successivo. Fino ad ora, il governo ha, infatti, potuto attuare le misure di spesa annunciando – nel contempo – che le suddette clausole sarebbero state sterilizzate e che non ci sarebbero stati inasprimenti dell’Iva. Questo balletto “Iva si, Iva no”, tuttavia, non sta giovando alla nostra economia. Il pil è fermo anche a causa di questa incertezza.