Sviluppismo e sovranismo non s'attagliano
“Boom”, “choc”, “boosterism”. Le promesse di rilancio sono solo parole
Roma. I leader nazional-populisti sono solitamente criticati per la mancanza di un programma politico che vada oltre le diatribe sugli immigrati, le minoranze, le élite. Un programma che indica alla popolazione vari “nemici del popolo”, soprattutto immaginari. E’ un programma negativo che però – da solo – rischierebbe di fare precipitare le nazioni in un loop paranoide per cui le minacce sono onnipresenti: l’invasione di stranieri, il governo cinese in ascolto delle telefonate, l’Europa assetata di austerità. Sono tratti comuni a Donald Trump, Matteo Salvini e, da ultimo, Boris Johnson. Specularmente al programma dalla faccia mostruosa, di un muro in filo spinato o del mitra spianato, c’è però quello “positivo” della propaganda della promozione dello sviluppo economico con la promessa di mettere il “turbo” all’economia con un “boom” infrastrutturale, uno “choc” fiscale, per ridare benessere e posti di lavoro. Si risolve però in slogan ipertrofici, con risultati deludenti e aumenti di deficit. Da due anni negli Stati Uniti aspettano di assistere alla Infrastructure Week, una mega convention.
La gigantesca convention promessa da Trump per non far più languire gli americani su strade e ferrovie fatiscenti ancora non si vede, è diventata una barzelletta. Il presidente non ha ancora rivelato i dettagli su come sarà realizzato il “mega piano” da 2 mila miliardi di dollari (in campagna elettorale era uno solo). E’ inabissato. Eppure i ceo delle grandi società gli credettero. La Lega di Salvini, da vicepremier e non da primo ministro, non ha un programma economico, scimmiotta quello berlusconiano, parla di “choc” fiscale da oltre 10 miliardi di euro in deficit e di “rilancio” infrastrutturale. Ancora ci sono cantieri fermi per 55 miliardi. Salvini incolpa del fallimento di cui è corresponsabile il M5s che dice “no a tutto”.
Ora Johnson nel Regno Unito avanza il “boosterism”, un altro mantra sviluppista, un piano di rilancio anche infrastrutturale per mitigare gli effetti della Brexit verso la quale il primo ministro inglese, in carica da due settimane, è diretto “senza se e senza ma”. “Boosterism è una bella parola, penso che avrà presa”, ha detto un alleato di Johnson, scrive il Financial Times, perché l’ex sindaco di Londra voleva dare l’idea di mettere dei “razzi” al Regno Unito così come ha fatto con la sua capitale. L’espressione è mutuata dagli Stati Uniti, significa fare progredire una città o un regione depressa. Parte dell’idea è di programmare finanziamenti per cinque anni – un piano quinquennale – per sostenere gli investimenti al di fuori di Londra, con linee ferroviarie interurbane di nuova generazione cominciando con l’alta velocità tra Manchester e Leeds. Più in generale la promessa è di migliorare le infrastrutture del Regno Unito che Johnson ha descritto come “scricchiolanti, con un disperato bisogno di sviluppo”.
L’idea di produrre un rilancio degli investimenti, soprattutto infrastrutturali, con un “boost”, un turbo, non è cattiva. E’ probabilmente quello che serve per creare aspettative positive negli operatori economici e negli investitori che sono avviliti proprio dalla prospettiva di un “no deal”, ovvero quello che Johnson vuole concretizzare il 31 ottobre. La contraddizione è evidente.
Nel Partito conservatore non tutti abbracciano l’idea di una Brexit disordinata. Però, da quando è in carica, il primo ministro avrebbe fatto guadagnare ai Tory tra i sei e i dieci punti nei sondaggi, superando i laburisti: lo chiamano il “Boris bounce”, il rimbalzo di Boris. Un rimbalzo che deriva dalla proposta di rafforzare le guardie di frontiera, fare scorta di medicinali, investire in nuove infrastrutture tecnologiche e finanziare una delle più grandi campagne pubblicitarie in tempo di pace. Johnson vuole insomma preparare il Regno Unito al peggio avendone però creato i presupposti. Un po’ come Trump che chiede alla Federal Reserve di produrre nuovi e crescenti stimoli monetari per contrastare l’incertezza derivante dalla guerra commerciale con Cina ed Europa da lui stesso innescata.
Al di là degli slogan, il problema è soprattutto come il piano “boostering” verrà finanziato. L’idea è di spendere anzitutto quella riserva fiscale da 26 miliardi di sterline accantonata dall’ex cancelliere Philip Hammond appunto per mitigare gli effetti della Brexit. In altri termini, un tesoretto. Purtroppo secondo l’Office for Budget Responsibility, l’autorità che fornisce al governo valutazioni indipendenti sulle finanze pubbliche, “non vi è alcuna cassa di guerra o pentola di denaro messa da parte che renderebbe [la spesa] un pasto gratis”. Il crollo della sterlina, da quando Johnson è al comando, testimonia che la linea dura danneggerà l’economia inglese. La Bank of England (BoE) ha appena abbassato le stime di crescita per quest’anno (all’1,3 dal precedente 1,5 per cento) sulla base della previsione di un’uscita dall’Unione europea senza condizioni concordate, come ha sottolineato il governatore Mark Carney. Per la BoE gli effetti di un “no deal” sono tutti negativi: “Sterlina debole, inflazione in aumento e crescita del pil al ribasso”. Per finanziare le nuove misure Johnson dovrebbe quindi aumentare le tasse oppure aumentare il deficit e finanziarsi sul mercato a tassi maggiori di oggi proprio in ragione del rischio prodotto dall’avveramento Brexit. Il “boost” inglese ha davanti un grande “no”, quello del “no deal”.