L'aggressività americana non ha spezzato l'asse del male, anzi
Venezuela e Iran aggirano le sanzioni e vendono greggio alla Cina. Pechino non risente dei dazi, dice l’ex consigliere di Trump
Roma. L’aggressività di Donald Trump è lontana dal mettere a segno il definitivo crollo produttivo dei principali rivali geopolitici. Cina, Iran, Venezuela, l’asse commerciale del male che la Casa Bianca intende combattere su tutti i fronti, sembra segnare, al contrario, un momento di rivalsa. C’è chi, come l’ex presidente di Goldman Sachs ed consigliere economico di Trump, Gary Cohn, sostiene che la guerra dei dazi voluta dal presidente americano starebbe danneggiando il sistema industriale americano. Secondo Cohn, le tariffe hanno reso costoso l’importazione di prodotti vitali dalla Cina, contrastando gli effetti dei tagli fiscali di Trump, progettati per stimolare l’economia degli Stati Uniti: “Quando costruisci attrezzature per impianti, per forza di cose devi acquistare acciaio, alluminio e altri prodotti importati. Ma se su quegli stessi prodotti ci sono dei dazi e dei rincari, allora devi pagarli di più. E questo, letteralmente, si mangia ogni incentivo fiscale dato da Trump, che toglie con una mano, quello che dà con l’altra”.
Particolarmente interessante è il caso del Venezuela. La compagnia statale venezuelana, la Pdvsa, colpita duramente dalle sanzioni di Washington per rovesciare Nicolás Maduro, negli ultimi mesi ha sviluppato una serie di strategie produttive che continuano a tenerla a galla. La società ha cominciato a rimescolare il suo petrolio per produrre principalmente un tipo di greggio pesante (il Merey) preferito dal mercato asiatico, sospendendo la produzione di quello più richiesto dalle raffinerie americane. Un cambio che ha consentito al Venezuela di aumentare lo scorso giugno le proprie esportazioni (raggiungendo 1 milione di barili al giorno di produzione) rispetto agli 875 mila di maggio 2019. Pdvsa, nonostante i tentativi americani di bloccare le petroliere al largo delle coste venezuelane, può continuare a contare sul sostegno fondamentale della compagnia statale russa Rosneft che lo scorso mese ha acquisito oltre il 46 per cento dei carichi di greggio venezuelano per poi rivenderli ai propri clienti asiatici finali (circa 432 mila barili di greggio al giorno).
Il braccio di ferro con l’Iran è ancora più duro: la decisione di sanzionare gli asset del ministro degli Esteri iraniano Zarif è un chiaro segnale al regime degli ayatollah. Tuttavia le petroliere iraniane continuano a scaricare silenziosamente le loro forniture di greggio nei porti cinesi. Come riportano i dati di Refinitiv, a giugno le spedizioni di petrolio iraniano hanno raggiunto i 208 mila barili di greggio al giorno. Di questi circa 163 mila barili sono stati scaricati nel porto di Tianjin, nella Cina settentrionale, mentre altre sono attraccate a Jinzhou, nella Cina meridionale. Per Teheran, la presenza del mercato cinese è un fondamentale salvagente per sostenere la propria produzione petrolifera, motivo per cui, ancora di recente, il vicepresidente iraniano, Eshaq Jahangiri, ha chiesto a Pechino di comprare più petrolio. Sia la Cina che gli altri alleati dell’Iran come l’India hanno più volte criticato la postura americana nei confronti del settore degli idrocarburi iraniano e di fatto stanno avvallando la prassi dei cosiddetti carichi fantasmi. Le petroliere di petrolio e gas della Repubblica islamica dirette verso i mercati di sbocco, contrariamente al diritto della navigazione, disattivano gli strumenti di posizionamento satellitare come l’Ais (Automatic identification system) per evitare di essere tracciati, in particolare nel passaggio in uscita dallo Stretto di Hormuz, dall’intelligence americana e britannica. Una tecnica utile per uscire dalla gabbia trumpista per il controllo del mercato energetico e che forse spingerà Trump a un approccio più morbido.