Audizione del ministro Giovanni Tria al Senato (foto LaPresse)

La banca meridionale a tutto serve fuorché a innovare

Alberto Brambilla

Ragioni per dubitare dell’utilità di un istituto per il sud per creare sviluppo

Il ministro dell’Economia Giovanni Tria si è impegnato a prodigarsi per la (ri)costituzione di una banca per il sud davanti a trenta sigle sindacali convocate per discutere il progetto da realizzare eventualmente in autunno con la prossima legge di Bilancio. L’obiettivo di una nuova Banca del Mezzogiorno sarebbe quello di sostenere i finanziamenti alle imprese e investire in nuovi progetti industriali. Luigi Einaudi, a proposito di banche laiche e cattoliche, diceva che le banche non dovrebbero avere “aggettivi”, le banche fanno le banche senza bisogno di ulteriori definizioni perché un istituto “aggettivato” avrebbe obiettivi differenti da quello di garantire credito che la svierebbero da tale funzione. Utile ricordare che una Banca per il Mezzogiorno già esiste, il Medio Credito Centrale, nata con il sostegno pubblico di Poste per volontà del ministro dell’Economia Giulio Tremonti e poi passata sotto il controllo di Invitalia, l’agenzia pubblica per l’attrazione degli investimenti che tuttavia è usata come cassa di pronto intervento per situazioni di crisi aziendali.

 

E’ il Medio Credito che interverrà insieme al Credito Sportivo e al Fondo interbancario per partecipare al salvataggio di Banca Carige commissariata dalla Banca centrale europea. Quale sia dunque il bisogno di una replica di una Banca del Mezzogiorno è difficile da comprendere se non con la necessità di aggregare piccole banche popolari in un unico polo bancario, che rischia però di essere la sommatoria di fattori di debolezza delle parti: rapporto tra costi e ricavi superiore alla media, rendimento del capitale basso e alta consistenza di crediti deteriorati. Tra il 2016 e il 2017 sono stati erogati 14 miliardi di prestiti in meno, secondo Confindustria, nonostante siano aumentate le imprese con un rating sicuro e il motivo sta nelle regole internazionali più stringenti. Ovvero le stesse alle quali dovrebbe stare un ipotetico istituto ad hoc per il sud.

 

Se l’esigenza è quella di fornire servizi bancari ce ne sono già a iosa perché un’impresa decente del Mezzogiorno trova già credito presso banche nazionali e straniere. Se l’obiettivo è invece quello di sostenere progetti di lungo termine esso andrebbe in senso contrario rispetto alla attività ordinaria di un istituto bancario e rispetto a una gestione prudente. Le banche servono a finanziare il capitale circolante delle imprese per l’attività operativa quotidiana. E siccome devono avere un atteggiamento prudente verso investimenti potenzialmente a rischio quali possono essere, per esempio, progetti di lungo termine a gittata ventennale, non è un operatore bancario a dovere assolvere a quel compito. Non si vedrebbe altro sbocco per una banca territoriale diverso da quello di fare parlare tra loro soggetti dello stesso luogo, o comunque vicini, nella stessa lingua: se un’impresa non riesce a ottenere credito a interessi favorevoli lo chiederà alla banca del suo territorio per avere delle condizioni eccezionali che ripagherà con finanziamenti politici. Un circolo di capitale inerte e certo con una finalità molto distante da quella di garantire sviluppo tecnologico alle imprese locali o di fare nascere nuove aziende, o nuovi progetti, finanziando buone idee. Il rischio è quello che l’aggettivo più appropriato per una banca del genere diventi quello di “clientelare”.

 

Di imprese valide ce ne sono molte che ottengono credito, ma quando si parla di finanziamento di progetti innovativi, quindi rischiosi, sono i fondi di venture capital che dovrebbero intervenire in fase di avviamento, startup, e i private equity in quelle di sviluppo o ristrutturazione. Secondo l’ultimo rapporto della Associazione italiana private equity, venture capital e private debt (Aifi), in Italia il 76 per cento delle operazioni ha riguardato aziende localizzate nel nord del paese (74 nel 2017), seguito dal Centro con il 13 (17 l’anno precedente), mentre le regioni del sud e isole hanno pesato per l’11 per cento (9 nel 2017). In termini di ammontare, invece, il nord ha attratto l’83 per cento delle risorse complessivamente investite in Italia, seguito dalle regioni del Centro con il 14, mentre rimane ancora ridotta la quota di risorse destinate al sud Italia, ovvero il 3 per cento. Le regioni in cui non sono state rilevate operazioni di private equity e venture capital nel 2018 sono Calabria, Molise e Valle d’Aosta. Il motivo del numero di operazioni ridotte, di inferiore ammontare rispetto alla media nazionale, o assenti, è riconducibile alla dimensione delle aziende troppo piccole per attirare capitali non bancari che intervengono su accordi di dimensioni più consistenti, un problema parallelo a quello di aree più depresse del Mezzogiorno, come Grecia e Maghreb. Cercare di bilanciare il divario con una banca territoriale e pubblica non è la soluzione alla necessità di una maggiore apertura internazionale.

  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.