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La Borsa s'è svuotata

Stefano Cingolani

Sono sempre di più i piccoli risparmiatori e gli imprenditori che si tengono lontani da Piazza Affari Per investire i soldi ci vuole fiducia. E allora meglio il materasso, i gioielli o i titoli di stato tedeschi

La Borsa? Quella italiana è una borsetta sempre più piccola e sempre più vuota. Perché preoccuparsi se crolla dopo l’annuncio che il governo è caduto? In fondo è solo un suk dove stringono patti leonini banchieri gangster e capitalisti rapaci. I grillini la pensano così e in quattordici mesi al governo hanno fatto parecchio per mettere in pratica i loro pregiudizi. Ma non sono certo i soli a odiare la Borsa. C’è tutta la panoplia della sinistra anticapitalista e della destra sociale, ci sono i Fratelli d’Italia e c’è anche la Lega. Sin dai tempi di Umberto Bossi ce l’aveva con la grande industria a favore della piccola, cioè le imprese dei patron che fanno tutto da soli, difendono la loro “roba” con le unghie e con i denti, figuriamoci rischiare che qualcuno gliela porti via. L’unico mercato che conta è quello sotto casa. Con Matteo Salvini e i suoi corifei è un continuo tiro incrociato contro l’establishment che a Milano ha la sua roccaforte e in piazza degli Affari il proprio campo da gioco. Così, in un anno e passa di rodomontate i verdi al potere hanno messo al centro non la riduzione delle tasse sul lavoro, ma la pensione per i parastatali.

 

Né Salvini né quel che resta dei Cinque stelle, in realtà, potranno ignorare il termometro finanziario che misura la temperatura sociale e politica del paese. L’intera crisi di governo, fino alle prossime elezioni, sarà scandita dalle lancette dello spread e del Ftse Mib. Cominceranno le solite sparate sul perfido complotto pluto-giudaico-massonico (Soros, la Bundesbank, la Banque de France, tanti nemici tanto onore). E contro i ribassi azionari partiranno i siluri neo-statalisti. Prima hanno fatto del tutto perché le aziende pubbliche facessero terra bruciata e adesso che cosa vogliono, nazionalizzare di nuovo l’Enel, l’Eni, Leonardo?

 


L’intera crisi di governo, fino alle prossime elezioni, sarà scandita dalle lancette dello spread e del Ftse Mib. Nel 2006 la capitalizzazione di Borsa ammontava a 733 miliardi di euro, ora è scesa a 458 miliardi. La ricchezza lontana da Piazza Affari


 

L’ultimo studio di Mediobanca sui dati del 2018, mostra che al vertice delle quotazioni azionarie ci sono Enel (con una capitalizzazione di 63,2 miliardi di euro) ed Eni (51,9 miliardi), seguono Intesa Sanpaolo con 35,1 miliardi, la Ferrari con 28,9, le Assicurazioni Generali con 26,5, la Unicredit con 25,3, Atlantia con 19,4 poi Snam (15,5), Exor (15,4), Cnh (12,9), le Poste (12,3), Terna (11,3), Telecom Italia (10,5) e Moncler con 10 miliardi. John Elkann ha saputo utilizzare al meglio le potenzialità offerte dal mercato dei capitali e non solo in Italia, scorporando Fca (Fiat Chrysler), Cnh (Case New Holland) e soprattutto la Ferrari. Le imprese pubbliche, dal canto loro, hanno valorizzato l’azionista stato al quale hanno versato buoni dividendi. In mezzo ci sono le banche, due soprattutto, Intesa e Unicredit. Tra questi agglomerati e tutti gli atri la distanza è rimasta molto, troppo ampia, “l’ascensore del capitale” se così vogliamo chiamarlo, si è bloccato: oltre alla democrazia politica non funziona nemmeno quella economica.

 

Il quadro si fa ancor più impressionante se mettiamo insieme le società nelle quali comuni e regioni sono azionisti di riferimento. I gruppi pubblici, cioè Eni, Enel, Snam, Poste, Terna troviamo Leonardo, Hera, A2A, Italgas, Saipem, Acea, fatturano tre volte più di quelli privati e dominano nei servizi e nell’energia. La manifattura resta più efficiente in termini di risultati e finanziariamente più sana rispetto alle aziende di stato (gli alti debiti sono il loro tallone d’Achille), ma in ogni caso è ancora piccola. Il modello italiano prevalso nell’ultimo quarto di secolo, quello basato sulle nicchie di eccellenza, ha lasciato di nuovo il campo allo stato nei comparti strategici. Le privatizzazioni non hanno rinnovato alla radice il capitalismo tricolore come sperava Romano Prodi. E il fantasma dell’Iri si è materializzato di nuovo per prendersi la rivincita.

 

Dice il professor Paolo Savona, il guardiano degli scambi, presidente della Consob, la commissione che veglia sulle società quotate: “A fine 2018 le attività finanziarie dell’Italia erano pari a 16.295 mld di euro, quasi 10 volte il pil. Le famiglie ne possedevano 4.218 miliardi (22,6 per cento in forma monetaria), le imprese 1.852 miliardi e l’estero 2.748 miliardi. Le passività finanziarie in contropartita erano accese dalle imprese per 3.764 miliardi di euro, dalle amministrazioni pubbliche per 2.682 miliardi, un ammontare quasi pari a quelle estere (2.672 miliardi). L’indebitamento delle famiglie è restato modesto, 0,9 miliardi, uno dei più bassi nel mondo sviluppato”. Ebbene, questa ricchezza consistente, anzi notevole, finisce sempre meno a Piazza Affari.

 

Nel 2006 la capitalizzazione di Borsa ammontava a 733 miliardi di euro, ora è scesa a 458 miliardi, nel 2018 ha perso il 17,6 per cento in buona parte a causa della tempesta d’autunno scoppiata con il balzo dello spread. La piazza di Francoforte arriva a 1.700 miliardi di euro, la City di Londra a 3.500. La capitalizzazione della Borsa sul totale mondiale si ferma ad un misero 1 per cento mentre il prodotto interno italiano è pari al 2,38 per cento. L’ufficio analisi di Mediobanca mostra come le azioni nazionali non sono state remunerative:100.000 euro investiti a gennaio 2009 sarebbero diventati, dieci anni dopo 107.300 con la Borsa italiana, 186.800 se dirottati nelle borse europee, 270.300 in quelle mondiali. La rischiosità del listino azionario milanese è quasi doppia rispetto all’indice internazionale: 21,72 contro 11,35 per cento. Altro che Wall Street o la City, il vero casinò ce l’abbiamo in casa, l’instabilità regna a Piazza Affari che prima della grande crisi capitalizzava circa metà del prodotto lordo, oggi è al 28,2 per cento, con un calo di 5,3 punti rispetto all’anno precedente.

 

Il divario rispetto alle maggiori piazze europee è aumentato: secondo Mediobanca, Piazza Affari indossa costantemente la maglia nera. Il mercato azionario italiano è piccolo non solo in termini di capitalizzazione ma anche rispetto al numero di società quotate, appena 344. Nel 2018 c’è stato un aumento di 19 società per effetto delle ammissioni a quotazione e delle revoche sul mercato telematico Mta (+3), su quello delle piccole imprese Aim (+18). Ma il numero resta esiguo. Non solo, abbiamo assistito all’uscita di operatori importanti, addirittura tra i principali come Luxottica quotata a Parigi dopo la fusione con Essilor. Ansaldo, Parmalat, Damiani, Vittoria Assicurazioni, Beni Stabili, Nice solo per citare alcune aziende che hanno scelto di non essere più quotate sul listino italiano dal gennaio di quest’anno. I Pir (piani individuali di risparmio) sono stati un flop e non sono in grado di diventare azionisti stabili delle imprese.

 

La Borsa non attrae, non piace ai populisti né agli statalisti vecchi e nuovi, tutto questo è evidente, ma non piace nemmeno ai risparmiatori e agli stessi industriali. Oggi il dibattito politologico parla di divorzio tra capitalismo e democrazia liberale, ebbene l’Italia mostra una separazione tra finanza e impresa che diventa, paradossalmente, divorzio tra capitale e capitalisti. Come mai? C’è un sistema industriale sempre più frantumato in piccole e medie entità, d’accordo, ma in fondo anche il Mittelstand, nerbo della manifattura tedesca, non è molto diverso, però Francorte come abbiamo visto vale quattro volte Milano. C’è chi se la prende con la globalizzazione e con i fondi “locusta” che piombano sulle aziende le spolpano e volano via, chi con le banche acchiappatutto che non lasciano nessuna autonomia al mercato finanziario. C’è una buona parte di realtà in tutto questo, ma la verità che sta davanti agli occhi e nessuno vuole affrontare è un’altra: il mercato dei capitali giace sotto il macigno del debito pubblico che schiaccia tutto e tutti.

 

Gli economisti lo chiamano effetto spiazzamento, è la traduzione dell’inglese crowding out, e in teoria è molto semplice: se un paese risparmia 100 euro e ne usa 50 per finanziare il debito pubblico, ne rimangono 50 per impieghi privati. Naturalmente tutto questo a bocce ferme perché se il paese cresce a un ritmo più elevato e il debito resta costante, aumenta lo spazio per gli investimenti. Lo stesso se vengono ridotte le imposte senza aumentare il debito. Insomma, ci sono molte variabili possibili. I keynesiani negano che esista una equazione del genere, Paul Krugman teorizza che ci può essere spiazzamento solo in condizioni di equilibrio da piena occupazione. Olivier Blanchard sostiene che tagliare le tasse in deficit, aumentando quindi il debito pubblico, può avere effetti espansivi, purché duri “abbastanza a lungo da stimolare la spesa privata, ma non così a lungo da aumentare l’aspettativa che il disavanzo sfugga di mano”. Inoltre, per investire e rischiare i propri quattrini ci vuole fiducia, altrimenti si preferiranno sempre i beni rifugio e i titoli di debito a meno che non ci sia un rischio di default come per certi versi quello del 2011. Disquisizioni teoriche a parte, un cosa è certa: l’Italia deve finanziare duemilatrecento e rotti miliardi di euro, circa un terzo in più di quel che produce ogni anno. Il Tesoro opera sul mercato come soggetto privilegiato anche perché i titoli che stampa sono tassati la metà di quelli emessi dai privati. In Italia, dunque, lo spiazzamento è addirittura doppio. Questo ha determinato uno squilibrio potente nell’impiego del reddito e dai primi anni Novanta il fossato si è addirittura allargato. La crisi che qui è durata dieci anni e sembra non finire mai, ha spinto le famiglie a tenere i propri risparmi in forma liquida (lo si vede dall’aumento dei depositi in banca anche se non danno alcun interesse) oppure a investirli in gioielli, oro e Bund, sì i titoli di stato tedeschi non rendono nulla, ma sono considerati alla stregua di metallo prezioso.

 

Il risparmio nazionale è stato davvero protetto, come vuole la Costituzione e come sostengono gli statalisti? Per capirlo dobbiamo gettare uno sguardo al lungo periodo, tuffandoci indietro nella storia. Ci aiuta Giovanni Siciliano, a lungo responsabile dell’ufficio studi della Consob, nel suo prezioso libro “Cento anni di borsa in Italia” (Il Mulino): “Avendo messo 100 lire in azioni alla fine del 1905 si avrebbero a fine 1998 circa 280 lire con lo stesso potere d’acquisto, mentre spendendo la stessa somma in titoli di stato, avremmo ottenuto sole cinque lire”. Gli equilibri restano sostanzialmente gli stessi prendendo solo il secondo Dopoguerra, dal 1946 alla fine della valuta nazionale: 670 lire per chi ha puntato sulle azioni, appena 120 su chi ha scelto Bot, Cct e affini. Un’analisi condotta con altri criteri che parte dal 1973 e arriva agli anni della grande crisi, conferma che la Borsa ha dato comunque un rendimento superiore ai Bot nonostante per ben sei volte l’investimento azionario abbia perduto più del 40 per cento rispetto ai picchi precedenti (dal 1975 al 1978, 1981, 1987, 1992, 2003 e gli anni dal 2009 al 2013) mentre i titoli di stato hanno subito oscillazioni ben inferiori. Dunque, la mano pubblica ha tosato i risparmiatori più di quanto non lo abbia fatto la mano invisibile del mercato: il Bot people è stato tradito.

 

Ciò non assolve la Borsa e le sue debolezze congenite. Nei periodi buoni (per esempio gli anni ’50 e ’80) i rendimenti delle azioni italiane hanno tenuto il passo con quelli dei maggiori paesi europei, negli anni delle vacche magre la performance nazionale è stata drammaticamente inferiore. Battaglie finanziarie, come quella per il controllo di Telecom Italia, scandali come Parmalat o i Cirio bond, hanno creato alte illusioni e profondissime delusioni. I titoli di stato, però, hanno avuto un rendimento negativo nonostante il vantaggio fiscale del quale hanno sempre goduto allo scopo di piazzare il debito pubblico presso i risparmiatori privati nazionali e internazionali. In quest’ultima fase, tutti questi fattori strutturali o congiunturali si sono fusi in una miscela micidiale.

 


Il risparmio nazionale è stato davvero protetto, come vuole la Costituzione e come sostengono gli statalisti? La versione di Savona. E’ il prezzo che si paga a questo spirito dei tempi che detesta il mercato e vende illusioni sul potere salvifico dello stato “ospedale”


 

Per la Consob proprio questa dovrebbe essere la preoccupazione principale. Ma il suo presidente non si fascia la testa. La prima relazione di Paolo Savona si concentra su altro, di fatto sulla gestione del debito pubblico, fino a rimpiangere i bei tempi andati quando i titoli di stato erano in mano direttamente alle famiglie e non alle banche, grazie all’esistenza di un prestatore di ultima istanza e della moneta nazionale. Il professor Savona si vuole adoperare per l’introduzione di titoli privi di rischio a livello europeo alternativi al Bund tedesco. Questo è il suo grande progetto, affinché riesca bisogna che un flusso ampio di risparmio venga canalizzato anche in Italia verso questi Safe bonds. Ma non a scapito dei titoli di stato italiani, perché il debito, anche se e quando sarà stabilizzato in rapporto al prodotto lordo continuerà a crescere almeno allo stesso ritmo del pil, quindi bisognerà emettere ogni anno più Btp, Cct e quant’altro. Che cosa verrà penalizzata se non proprio la Borsa? Nelle sue conclusioni il professor Savona scrive che “presterà attenzione all’obiettivo di assecondare la destinazione del risparmio verso le attività che producono crescita reale e benessere sociale”. Una formulazione corretta, ma può essere riferita sia agli investimenti pubblici sia a quelli privati. Non si parla mai di aumentare il peso della Borsa e di indirizzare una quota maggiore di quei 16 mila miliardi che rappresentano la ricchezza finanziaria degli italiani verso gli investimenti in titoli azionari.

 

E’ il prezzo che si paga a questo spirito dei tempi che detesta il mercato e vende illusioni sul potere salvifico dello stato, non lo stato innovatore o imprenditore, come teorizza Mariana Mazzucato, ma lo stato ospedale, anzi barelliere, perché il brutto deve ancora arrivare. Un anno nazional-populista ha portato l’economia reale in stagnazione, adesso la crisi di governo coincide con una brusca frenata dell’economia europea a cominciare dalla Germania. L’Italia sarà “spontaneamente” trascinata verso il basso perché si ridurranno le esportazioni, l’unica voce che ha tenuto a galla il paese. La Borsa, per piccina, leggera, fragile che sia, non potrà far altro che registrare la febbre gialla, pardon giallo-verde.

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