Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump parla alla stampa all'aeroporto municipale di Morristown, nel New Jersey (foto LaPresse)

I dazi dei quattro cantoni

Stefano Cingolani

Usa, Cina, Europa e Russia tutti contro tutti. Una guerra che ora comincia a spaventare pure chi l’ha scatenata

Questa “è l’estate della paura”: il Financial Times s’allarma, Wall Street e tutte le Borse mandano segnali di tempesta. Il circo mediatico-politico in Italia parla d’altro. Non cade, lui, nella trappola mercatista, guai ai gufi, ai corvi, ai profeti di sventura. Ma andare alle urne con l’economia sotto zero non è davvero una bella prospettiva. Il prodotto lordo tedesco è sceso dello 0,1 per cento nel secondo trimestre, mentre l’economia del Regno Unito, ferita dalla Brexit, si contrae per la prima volta da nove anni in qua; scivola la Francia; è ferma, e da mesi, l’Italia. Il pericolo numero uno arriva dalla guerra dei dazi che ha preso la mano persino all’uomo che l’ha scatenata. Il mondo intero è coinvolto in una confusa e drammatica partita a quattro: Stati Uniti contro Cina e Unione europea; Cina contro Usa; Ue contro Russia e Usa; Russia un po’ con la Cina un po’ con la destra europea senza perdere di vista l’odiatamata: l’America.

 

Trump, che ha scatenato la guerra, si sta incartando e comincia a rendersene conto. La nuova ondata di dazi è rinviata a dicembre

Donald Trump si sta incartando e comincia (forse) a rendersene conto. La nuova ondata di dazi è rinviata a dicembre, per consentire un Natale consumista alle famiglie americane. Mentre sembra che non verranno toccati i prodotti high tech che tanto hanno contribuito al nuovo boom made in Usa. Impegnato ormai da due anni nella sua crociata, non ha ottenuto finora grandi risultati. Pechino minaccia rappresaglie che possono colpire le imprese a stelle e strisce. La Cina, che all’inizio della grande crisi aveva un attivo della bilancia dei pagamenti superiore al 6 per cento del prodotto lordo, ora è già scesa allo 0,2 per cento, ma a Washington non basta, vuole che vada in rosso. Ciononostante, la bilancia Usa non migliora e resta ancorata a un deficit del 2,5 per cento. E’ vero che l’economia cinese rallenta, ma cresce ancora del 6 per cento. E’ vero che l’economia americana ha conosciuto un boom che dura ormai da dieci anni e ha ridotto al minimo la disoccupazione (3,7 per cento, siamo a livelli da pieno impiego), ma s’avvicina il punto di svolta negativo: il prodotto lordo crescerà di appena l’1,9 per cento nel prossimo trimestre secondo le stime della Goldman Sachs e lo scontro commerciale farà perdere almeno lo 0,6 per cento di pil. E’ vero che l’economia americana non dipende dalle esportazioni come quella cinese o europea, tuttavia le multinazionali sono una componente determinante della ricchezza Usa e loro hanno spostato all’estero gran parte della catena produttiva di valore. Non solo Apple e le regine della Silicon Valley, anche la manifattura tradizionale comincia a soffrire, nel suo piccolo lo sta sperimentando Napoli con la chiusura della Whirlpool.

 

La Casa Bianca ha ingaggiato un braccio di ferro con la Federal Reserve: Jerome Powell, il capo che Trump stesso ha messo alla testa della Banca centrale affinché riducesse in modo consistente i tassi d’interesse, è sotto attacco. Il taglio di un quarto di punto deciso alla fine di luglio è ridicolo secondo il presidente che vuole un punto in meno perché teme una recessione proprio quando dovrà giocarsi il secondo mandato, l’anno prossimo. Nel 2020 scadono anche gli incentivi fiscali che hanno dato senza dubbio uno stimolo, anche se meno forte e duraturo di quel che si pensa. Robert Barro, uno dei maggiori economisti americani, liberista, e Jason Furman, che era stato consigliere capo di Barack Obama, hanno condotto uno studio il cui risultato è che la riforma fiscale introdotta nel 2017 ha contribuito per lo 0,9 per cento alla crescita a partire dal 2018 con un trascinamento fino a quest’anno. Niente male, ma è meno di un terzo. Il resto viene dall’aumento della produttività salita del 2,3 per cento. Se gira la congiuntura tutto questo è a rischio. Ma le cifre passano in secondo piano rispetto al primato della politica. E politico è lo scontro che molti già chiamano la nuova guerra fredda.

 

Trump ha spezzato i vecchi legami sino-americani, ma né lui né l’industria che lo sostiene hanno in mente un paradigma alternativo

Il vecchio ordine geopolitico in Asia è saltato; l’equilibrio costruito da Henry Kissinger e Richard Nixon che dagli anni 70 in poi è durato fino a Barack Obama, viene scardinato da un presidente che rifiuta quel che ha fatto il suo predecessore (si pensi all’Obamacare o agli accordi di Parigi sul clima), e vorrebbe ribaltare l’intero assetto liberal-democratico sia nella sua variante progressista (Carter-Clinton-Obama) sia in quella conservatrice (Nixon-Reagan-Bush padre e figlio). Trump ha spezzato i vecchi legami sino-americani, ma né lui né il complesso militar-industriale nazionalista che lo sostiene hanno in mente un paradigma alternativo. A luglio le forze aeree cinesi e russe hanno condotto il primo pattugliamento congiunto, costringendo l’aviazione sud coreana a sparare una serie di salve d’avvertimento per impedire una violazione dello spazio aereo. Le tensioni in tutto lo scacchiere si moltiplicano: con Taiwan, con il Vietnam, con le Filippine, mentre la crisi di Hong Kong può degenerare da un momento all’altro. Il Giappone che si sente minacciato e non protetto dagli Usa, si riarma. La Cina, nonostante abbia una distanza siderale dagli Stati Uniti sul piano militare e sia ancora lontanissima dal minacciare il primato tecnologico a stelle e strisce, non accetta più di giocare un ruolo secondario. Walter Russell Meade scrive sul Wall Street Journal che l’America non è pronta per una nuova guerra fredda. Soprattutto perché non ha capito la Cina né, in concreto, che cosa essa vuole. E cita Sun Tzu: se conosci te stesso e il tuo nemico non avrai timore del risultato di cento battaglie; se conosci te stesso e non il nemico, ogni vittoria si trasformerà in sconfitta; se non conosci né l’uno né l’altro soccomberai sempre. Per Meade l’America di Trump non conosce né se stessa né il suo nemico. Anche perché, bisogna aggiungere, oggi la competizione non è più bipolare, ma almeno tripolare, una variante fondamentale rispetto al contenimento sperimentato nella guerra fredda.

 

La strategia di Xi Jinping è basata sull’accerchiamento, quindi vuole avere una rete di rapporti vasta e multipla. La sua crisi interna più grave è a Hong Kong, ma il nuovo imperatore non può trasformarla in una nuova piazza Tienanmen come fecero gli Otto Immortali guidati da Deng Xiaoping e Li Peng trent’anni fa. Per sfidare il predominio americano, Xi deve usare una tattica sofisticata, lo scontro frontale non va a suo vantaggio. Prendiamo la guerra delle valute. Il renminbi è sceso al livello più basso in dieci anni, sotto la soglia di riferimenti di 7 yuan per dollaro, ma la svalutazione può danneggiare la stessa Cina che si è riempita di titoli in dollari. Il debito pubblico americano supera i 22 mila miliardi di dollari dei quali solo il 7 per cento è in mani cinesi, circa la metà rispetto al 2011. La dipendenza dal dollaro sia per l’interscambio commerciale sia per gli investimenti interni è il grande punto debole, Pechino se ne rende ben conto e cerca di ridurla, ma non riesce a divincolarsi. La nuova via della seta, la Road and Belt iniziative, dovrebbe servire anche a questo, sia pur nel lungo periodo.

 

La dipendenza dal dollaro sia per l’interscambio commerciale sia per gli investimenti interni è il grande punto debole della Cina

Trump, come per la verità la maggior parte dell’Occidente, usa la boxe per contrastare i cinesi i quali invece padroneggiano alla perfezione le arti marziali, le quali sono chiaramente più efficaci – sostiene Kerry Brown, ex diplomatico britannico, professore di Chinese Studies e direttore del Lau China Institute al King’s College di Londra. Non solo. Il nuovo Impero di Mezzo ha bisogno di riconvertire l’economia in senso domestico pur senza perdere la sua forza espansiva. Il governo ha varato una serie di stimoli domestici che hanno bilanciato l’impatto negativo del commercio estero. Si è visto, così, che dopo un primo choc seguito alle sanzioni l’anno scorso, la crescita è ripresa a un buon passo (6,4 per cento nel primo trimestre), più che doppio rispetto a quello americano e almeno triplo rispetto a quello europeo antecedente all’attuale frenata. Ciò non vuol dire che i dazi siano punture di spillo: la Cina vuole diventare la seconda potenza economica, però ha ancora un reddito pro capite di appena 9 mila dollari l’anno, dunque ha bisogno di non fermarsi mai. Per piegare il dragone, tuttavia, ci vorrebbe una stretta tale da mettere a terra le stesse economie occidentali. 

 

Il mondo secondo Xi, ha scritto Kerry Brown, è diviso in quattro zone. La prima, l’area chiave, è occupata dagli Stati Uniti, il maggiore sfidante sul piano strategico. La zona due abbraccia circa 60 paesi ed è una combinazione di poteri regionali soprattutto orientali, alcuni dei quali fanno parte dell’Asean, l’Associazione delle nazioni del sud est asiatico, altri della Shanghai Cooperation Organization orchestrata dalla Cina, altri ancora della nuova Via della seta (quelli dell’Asia centrale, per esempio). La terza zona è l’Unione europea, di gran lunga il più grande partner per il trasferimento delle tecnologie. Accettare in blocco la Bri (Belt and Road Initiative) come ha cercato di fare il governo gialloverde (su iniziativa soprattutto grillina) è un modo per rompere il fronte e aggirare gli ostacoli che impediscono di considerare la Cina una vera economia di mercato, obiettivo fondamentale della strategia di Xi. Nella quarta zona ci sono le regioni del medio oriente, dell’Africa e della stessa America latina, per questi paesi l’interesse primario è la fornitura di risorse energetiche, minerarie, agricole.

 

E la Russia? Anch’essa è considerata soprattutto una fonte di idrocarburi. Una scelta chiave è l’accordo per il gasdotto siberiano: firmato nel 2014, il primo soffio di metano dovrebbe arrivare a dicembre, dopo aver superato difficoltà di ogni natura. Ciò conferma quanto sia arduo il rapporto tra due paesi divisi da una storica rivalità e da reciproci sospetti. Anche per questo un patto di ferro Putin-Xi non sembra molto probabile. Mosca e Pechino vogliono essere una coppia aperta, i cinesi tengono soprattutto alla loro Via della seta e privilegiare Mosca sarebbe nocivo, quanto a zar Vladimir, il suo sogno di un ritorno al bipolarismo lo spinge a usare la Cina come carta di riserva per tenere sulle corde Trump. 

 

Nella pancia della Grande Madre Russia le cose non vanno affatto bene. L’economia cresce a ritmo di zero virgola (0,6 per cento) e questa volta non c’è nessun crollo del prezzo del petrolio a fornire l’alibi come con l’ultima recessione del 2014-2017. Ci sono, invece, le sanzioni che cominciano a mordere davvero. I salari sono in discesa, la promessa di creare un welfare state comparabile con quello occidentale è sfumata, gli idrocarburi (oltre alle armi) sono l’unica voce consistente della bilancia estera, quella che con il prelievo fiscale alimenta il bilancio pubblico. Il ventennio di Putin si chiude con un crescente malcontento economico misto a un dissenso politico che sta trovando i suoi personaggi, le sue eroine come Lyubov Sobol la pasionaria o Olga che sventola la costituzione davanti al naso dei poliziotti. Sabato scorso 60.000 persone hanno contestato il governo: una protesta di queste dimensioni in Russia non si registrava dai moti di Piazza Bolotnaya del 2011-2013 contro i brogli elettorali, repressi con la forza. Come foschi presagi, s’aggiungono incidenti nucleari come quello dell’8 agosto sul mar Bianco o catastrofi come i mega incendi in Siberia. Mentre la fine delle sanzioni, obiettivo principale delle intromissioni politiche della Russia nei sistemi politici occidentali dagli Usa all’Italia, è sfumata.

 

In Russia le sanzioni cominciano a mordere davvero. L’Unione europea diventa la prima vittima del protezionismo

Non è la Cina, ma l’area euro a mostrare un surplus nettamente più ampio, pari al 3,2 per cento del pil, con l’Olanda al 9,9, la Germania al 6,6 e l’Italia al 2,5 per cento. L’Unione europea, con un mercato interno ricco, saturo e stagnante, dipende dalle esportazioni, è chiaro che diventa la prima vittima del protezionismo. E’ questo che vuole il presidente americano? Probabilmente no, o meglio non del tutto; ma certamente intende dare una sonora sberla a una Ue che non ama e a paesi come la Germania che considera recalcitranti se non proprio ribelli. Un ceffone economico, dopo quello militare inferto in sede Nato chiedendo (e su questo ha ragione) ai paesi europei di contribuire in modo consistente alla difesa comune. C’è un altro motivo di profonda irritazione che riguarda l’intero establishment americano, non solo l’attuale Amministrazione, e ha a che fare con la sicurezza da un lato e con il primato tecnologico dall’altro. Per gli Usa sono due facce della stessa medaglia. E questo gli europei non lo vogliono ammettere. Il braccio di ferro sul 5G e sul ruolo di Huawei è diventato un vero e proprio casus belli tra le due sponde dell’Atlantico. 

 

Con Berlino è ormai scontro frontale. Non solo Wahington, anche i governi occidentali e i mercati finanziari chiedono alla Germania: per favore spendi, indebitati almeno un po’. La risposta finora è stata “Nein, niemals”, ha scritto il Financial Times. Quanto potrà durare? Una politica fiscale espansiva è l’unica ricetta che in questo momento potrebbe aiutare la Germania, l’Italia, l’intera Europa. Anche in questo caso, è la politica bellezza, politique d’abord. Al contrario di quel che ci hanno fatto credere i populisti, i competenti – tecnici ed economisti – hanno capito i propri errori. Sono i politici, i “commissari del popolo”, che stanno commettendo il diabolico peccato di perseverare nei loro errori.

 

Condannati dalla geografia e dalla storia a produrre cose belle che piacciano al mondo (Carlo Maria Cipolla), gli italiani sono vittime predestinate del protezionismo. Il miracolo economico del Dopoguerra è stato favorito da una scelta coraggiosa, osteggiata anche dalla Confindustria dell’epoca: l’adesione agli accordi di libero scambio. L’Italia, economia di trasformazione la cui risorsa fondamentale è il lavoro, non può isolarsi. La partecipazione alla Comunità e poi all’Unione europea è stata una scelta obbligata, così come l’adesione all’euro; una classe dirigente sensata non dovrebbe metterlo in dubbio. Il governo gialloverde, il più confuso del Dopoguerra, ha praticato, invece, la versione più rozza della italica doppiezza. Dopo aver tuonato contro il riso cambogiano (coté leghista) ha aderito senza contropartite evidenti alla nuova Via della seta (coté pentastellato), ha promesso a Putin di togliere le sanzioni e a Trump di inasprirle (ancora i leghisti), ha sostenuto Maduro (grillini) e Bolsonaro (salvinisti), Netanyahu (Lega) e l’Iran (M5s). Altro che giri di valzer, qui siamo ai dervisci rotanti; altro che quattro cantoni, ogni trivio viene occupato solo per mettersi in mostra. Ma ora è finita. O no?

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