Capitali stanchi. Il riflusso della globalizzazione
I paesi autocratici si affermano in campo politico e crescono in quello economico. I populisti vellicano il ritorno alle società tribali. Lo spazio per contrastarli sta nell'arricchimento delle comunità locali
Si usa dire “globalizzazione” come se il suo significato fosse univoco. Invece, si hanno tre significati maggiori: quello centrato sulla centralità dei mercati, quello centrato sulla giustizia, e quello centrato sulla religione. Il secondo significato è riferito alla redistribuzione nel mondo dei frutti del progresso economico – la cui versione pop è “noi siamo il 99 per cento contro l’uno per cento”. Il terzo è quello dell’estremismo mussulmano – il debordare della Umma nel mondo degli infedeli.
Il primo significato è quello che va per la maggiore. Proviamo a definirne le caratteristiche: la globalizzazione ruota intorno alla liberalizzazione e integrazione dei mercati dei diversi paesi; essa è inevitabile – vale a dire è la tendenza storica in atto. La globalizzazione porta alla lunga tutti i paesi nel campo della democrazia – vale a dire nessuno, messo nella condizione di poter scegliere, rifiuterebbe i mercati efficienti, i diritti civili, e la democrazia rappresentativa, e, infine, alla lunga tutti ne beneficerebbero – vale a dire anche i perdenti di oggi troveranno lavoro.
Il progetto e la pratica della globalizzazione – dopo il suo esordio negli anni Ottanta con il duo Reagan-Thatcher – prende davvero corpo negli anni Novanta con il duo Clinton-Blair. Progetto e pratica diventati famosi con l’etichetta della “Terza via”. L’idea era di un programma che superasse sia la pratica della vecchia sinistra, quella centrata sulla spesa pubblica e i diritti acquisiti, sia i valori della destra. Verso il liberismo “di destra” la differenza albergava non tanto in campo economico quanto nel rifiuto del patriottismo, del militarismo, nonché dei valori tradizionali della famiglia. Potremmo aggiungere come novità sia verso la sinistra sia verso la destra anche l’esordio di una qualche eco-sensibilità. Che il programma abbia funzionato – se si sia imposto nel mondo – è oggetto di dibattito. Si hanno due direzioni del contenzioso, quella politica e quella economica.
Agli inizi degli anni Novanta sembrava che la “Storia fosse finita”. Con la vittoria dell’ordine liberale sia all’interno degli stati – più mercato e meno stato – sia nei rapporti fra stati – la caduta del Muro di Berlino e le riforme cinesi che facevano venir meno “la sfida comunista” – poco sembrava che potesse ormai cambiare, e dunque che la Storia – letta come mutamenti imprevedibili – fosse ormai finita. Anni dopo, fra le sfide esterne – il ritorno dei giganti ex-comunisti e delle altre autocrazie – e interne – il populismo – la Storia sembra essersi risvegliata, ma non ancora entro l’ordine liberale.
A proposito delle autocrazie. Che cosa accadrebbe se la dinamica corrente – i paesi autocratici che si affermano in campo politico e crescono in quello economico – si rivelasse duratura? I paesi illiberali avrebbero un peso sempre maggiore nell’economia mondiale, e quelli liberali – ancora ricchi in termini assoluti, ma meno ricchi di prima in rapporto ai paesi emergenti – tornerebbero dov’erano, ossia intorno alle rive del nord Atlantico, in Giappone, e nell’emisfero australe, insomma dov’erano fino alla fine degli anni Ottanta. In altre parole, avremmo un ciclo, partito con la vittoria nelle due guerre mondiali (“calde”), allargatosi con la vittoria nella terza (“fredda”), che è tornato al punto geografico e politico di prima, proprio per l’emergere degli sconfitti (i giganti ex comunisti) e dei loro imitatori (le autocrazie) della terza guerra.
A proposito del populismo. Lo schema salvifico di una volta è caduto. Al posto della salvezza collettiva si ha quella individuale. Il benessere ha ormai da tempo spinto le società liberali verso i beni “post materiali”. Una volta che i “beni materiali” – l’alimentazione, l’abitazione, l’educazione, la salute, e la pensione – siano soddisfatti, in misura più o meno completa, ecco che si passa a quelli “post materiali”. I legami di solidarietà – dalla famiglia patriarcale al mutuo soccorso – erano il paracadute delle società povere. Una volta che il paracadute diventa lo “stato sociale”, che è per sua natura impersonale, i legami tradizionali possono sciogliersi e può emergere la libera scelta individuale. La quale ultima “spaventa”. Da qui il desiderio del calore “tribale”. Da qui anche la ricerca di modi di produrre alternativi, come la “decrescita felice” che fermino la modernità.
I messaggi politici hanno trovato ultimamente un nuovo canale di distribuzione, il cui costo marginale è zero (Facebook, Twitter, siti, blog). Non si ha bisogno di organizzare il lavoro dei militanti di partito, uno schema del Dopoguerra. Non si ha nemmeno bisogno di capitale di rischio per fondare le televisioni, uno schema degli anni Ottanta. La rete telefonica e informatica c’è già, e il costo marginale di diffusione del messaggio è zero. La rete telefonica e informatica può così essere usata da tutti gli outsider.
La globalizzazione economica ha una prima “barriera assorbente” nella meccanica stessa degli scambi. Man mano che gli scambi dei servizi, che sono naturalmente più locali, diventano numerosi, la crescita della globalizzazione rallenta. Una seconda sorge dalla meccanica stessa degli scambi da intendere come rivolta di chi perde o teme di perdere il proprio lavoro. Se gli occupati delle imprese e dei settori eliminati dalla concorrenza non trovano una nuova occupazione possono trovarsi in grave difficoltà.
Questo andamento è stato confermato dagli studi condotti sugli Stati Uniti sull’onda della vittoria di Donald Trump. La concorrenza asiatica di un tempo – quella giapponese e delle “tigri” – non aveva avuto lo stesso impatto di quella che ha oggi quella cinese. L’impatto della prima concorrenza asiatica si era, infatti, manifestata in aree propense al mutamento. Il più recente choc cinese si è, invece, manifestato nelle aree con i lavoratori meno istruiti e nei luoghi in cui i posti di lavoro erano già diminuiti.
Che fare con le aree depresse? La riluttanza di alcuni economisti ad abbracciare l’idea della protezione delle comunità ubicate nelle aree depresse ha questa ratio: gli sforzi per aiutare le comunità in difficoltà potrebbero scoraggiare la gente a muoversi verso aree più promettenti. Secondo molti non-economisti quest’idea invece è miope, perché le comunità non sono solo una fonte di attrito che inibisce il funzionamento dell’economia globale, ma una parte indispensabile di una società “sana”.
Che le comunità vadano difese può sembrare un’osservazione banale. Per la maggioranza degli economisti, invece, il progresso economico che ha sostituito le interazioni personali dirette, quelle dette comunitarie, con quelle più efficienti ma impersonali dei mercati è un “progresso”. L’attività economica basata sulla comunità, infatti, può essere inefficiente. Un esempio: prestare denaro a un amico o prendersi cura di un parente malato è ad un primo sguardo “una cosa giusta”. I mercati finanziari grandi e trasparenti però attirano i fondi e ampliano l’accesso al credito, mentre un ampio mercato per la cura dei malati dà luogo specializzazioni che aiutano a migliorare la salute.
S’aggira e non sembra ancora rientrare il malessere. La globalizzazione è il cambiamento tecnologico hanno prosciugato alcune delle fonti di occupazione e di ricchezza. Inoltre, le sorti sembrano agli occhi di molti determinate da vicende lontane, dalle organizzazioni sovranazionali come l’Unione europea, e/o dai mercati finanziari, che sono, oltre che sovranazionali, anche volubili. Le opportunità, infine, si sono concentrate nelle città superstar, che attraggono soprattutto i talenti. I residenti dei luoghi in difficoltà finiscono così per diffidare delle élite e cercano un senso nelle politiche dei leader populisti.
*Centro di documentazione e ricerca Luigi Einaudi di Torino