L'abiura del protezionismo
Il nuovo governo rossogiallo deve contrattare su tutte le incompiute, da Alitalia a Fca
Roma. Nell’annunciare il secondo incarico per costituire il governo, stavolta rossogiallo, Giuseppe Conte ha parlato di “nuovo umanesimo”. Abbiamo studiato quello storico: conoscenza, apertura verso gli altri mondi e culture, curiosità, scoperte scientifiche, esplorazioni geografiche. E grandi traffici commerciali, che di tutto questo furono il veicolo. In economia il paese ha certamente bisogno, se non di umanesimo, di abbassare i ponti levatoi con il resto d’Europa e del mondo, avendo l’esecutivo precedente proclamato il sovranismo nazionalista.
Spread a parte, e a parte anche le pesanti ripercussioni sulla nostra filiera industriale della crisi tedesca e degli annunci stop-and-go di dazi della Casa Bianca, la sfilza di dossier industriali che riguardano controparti straniere è stata abbandonata a se stessa dalla ex maggioranza gialloverde. A partire dall’accordo lasciato a metà tra Fiat Chrysler Automobiles (Fca) e Renault, con il ruolo decisivo di Nissan. Emmanuel Macron se ne è occupato attivamente, difendendo certo la presenza dello stato francese in Renault ma egualmente in assenza di interlocutori politici in Italia: avrebbe mai potuto esserlo l’ex ministro dello Sviluppo economico ed ex amico dei gilet jaunes Luigi Di Maio, o l’alleato di Marine Le Pen ed ex vicepremier Matteo Salvini? La trattativa resiste sottotraccia e gli accordi tra i grandi produttori d’auto (ultimo, Toyota-Suzuki) nonché la crisi dell’auto tedesca impongono alleanze non solo difensive ma tecnologiche.
Fca è privata, ma il nuovo governo vorrà occuparsi, senza volontà stataliste, di un settore, l’automotive, che fattura 93 miliardi, occupa 250 mila addetti e vale il 5,6 per cento del pil? Egualmente il rilancio dell’Ilva di Taranto è rimasto in forse: sull’acciaieria più grande d’Europa grava la minaccia penale retroattiva voluta da Di Maio. Alitalia è ancora più nel guado: il partner industriale straniero, Delta, non vuole mollare i diritti sulle rotte del Nordamerica, quello privato italiano, i Benetton, sono direttamente minacciati sempre dai M5s di revoca delle concessioni autostradali. Se non si vuole per l’ennesima volta ricorrere al prestito a carico dei contribuenti (l’attuale è di nuovo in scadenza) si deve almeno pensare a un piano B: che passa per la riapertura delle trattative con Lufthansa, con conseguente riduzione di personale ma almeno senza più statalizzazione. Serve però un ministro, anzi un premier, che vada a discutere con Angela Merkel (una delle fantomatiche autrici del complotto anti Salvini) e con la compagnia tedesca. Peccato che in era gialloverde i periodici incontri bilaterali con le controparti tedesche, politiche e imprenditoriali, siano stati sospesi, così come quelli con la Francia. Anche con la Spagna del socialista Pedro Sánchez ci sono questioni in corso che riguardano Mediaset, Benetton, Enel, Leonardo: ma pure Madrid era finita nella lista delle capitali infrequentabili, a causa della questione migranti. Per non parlare del padre di tutti i problemi, Donald Trump. Forse è leggenda che sia bastato un gesto d’intesa con Macron per far dire al presidente americano “Melania adora i vini francesi”, ma è certo che la questioni dazi, che colpirebbe la nostra agricoltura, e in questo caso il prosecco, è lì incombente senza che nessuno se ne occupi. Almeno quanto se ne sta occupando il fin qui odiato presidente francese.
AtKearney, società di consulenza globale basata negli Stati Uniti, ha pubblicato un dossier sugli investimenti diretti stranieri (Fdi) che il nuovo governo umanista farebbe bene a leggersi. Si intitola “Affrontare un paradosso globale” e individua questo paradosso nel come, appunto, la globalizzazione si stia sempre più scontrando con le istanze localistiche, non più di singoli paesi ma di regioni di essi o addirittura di comunità cittadine. Il problema è mondiale ma il governo precedente e i grillini lo hanno abbondantemente aggravato in casi come la Tav o il Tap in Puglia. Il rapporto parla appunto di “Età del multi-localismo” e di attenzione alle città, cioè di “frammentazione e regionalizzazione dei problemi”, il che può allontanare il flusso di capitali internazionali. L’indice Fdi vedrebbe nel 2019 l’Italia in una relativamente buona posizione, ottava su 25. Il che significa che regioni e città italiane sono di per sé attraenti per gli investimenti, o quantomeno ne necessitano (basta pensare a Roma). “Ma servono procedure certe di consultazione delle comunità locali, e una volta espletate la garanzia che le autorità di governo e regolatorie con cambino umore”. In ogni caso al primo posto nelle scelte degli investitori ci sono il ritorno economico (26 per cento) e il costo del lavoro (19). Tradotto, bando al protezionismo a tutti i livelli.