Foto LaPresse

Così i giovani, disoccupati o con lavori part-time, pagheranno il conto di quota 100

Luca Roberto

Il M5s festeggia i dati Istat sul lavoro: il tasso di disoccupazione scende al 9,9 per cento, ma ad aumentare sono soprattutto gli over 50. Nel frattempo la Ragioneria dello stato fa i conti su quanto costerà la riforma delle pensioni

Qualcuno ha già esultato. L'ufficio comunicazione del Movimento cinque stelle ha fatto persino in tempo a rilanciare sui social delle card, condivise dal nuovo ministro del Lavoro, Nunzia Catalfo, che celebrano i 130 mila occupati in più nel secondo trimestre 2019 in confronto al primo – la foto di due operai edili che si staglia sopra alla cubitale dicitura “IL LAVORO CRESCE” (il dato su base annua è +78 mila occupati ndr).

 

 

Eppure, a guardare meno superficialmente i dati rilasciati oggi dall'Istat nella consueta rilevazione, quello che emerge è sì un abbassamento del tasso di disoccupazione, al livello più basso (9,9 per cento) dal quarto trimestre 2011 e in calo da nove trimestri consecutivi. Ma anche un contemporaneo, delicato, gioco di equilibri che se da una parte avvantaggia alcune classi anagrafiche – più 0,9 per cento per la fascia d'età 50-64 anni rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente –, dall'altra racconta molto di un mercato del lavoro sempre meno stabile per le generazioni più giovani. Nella fascia tra i 20 e i 24 anni, infatti, il tasso di occupazione è sceso del 2,8 per cento su base annua, così com'è aumentato di 63mila unità il numero complessivo degli inattivi tra i 15 e i 64 anni, 0,5 per cento in più in termini di variazione annua.

 

A preoccupare, poi, è la qualità del lavoro e la tipologia di inquadramento occupazionale. Se è vero che tra aprile e giugno scorsi i lavoratori assunti con contratto permanente sono cresciuti sia rispetto al trimestre precedente (più 0,7 per cento) che rispetto a 12 mesi prima (più 0,3 per cento), è vero anche che una buona parte di questi contratti sono part-time, cresciuti quasi del 4 per cento tra aprile e giugno. Sul totale dei lavoratori a tempo parziale rispetto al primo trimestre si è verificata una crescita del 3,7 per cento di occupati che hanno dovuto accettare la nuova tipologia oraria come condizione involontaria (105 mila unità in termini assoluti). E come si sa, orari ridotti corrispondono a paghe più basse, minore indipendenza e incapacità di fare progetti a lungo termine (in spregio alla natura del contratto che recita: tempo indeterminato).

 

  

Sempre oggi la Ragioneria generale dello stato ha pubblicato un rapporto sull'impatto che le spese del sistema pensionistico e socio-sanitario avranno nel medio e lungo periodo sui conti pubblici. Cosa se ne evince? Lo studio analizza la previsione della spesa pensionistica disposta con l'introduzione a regime di quota 100, ovvero la riforma che permette di andare in pensione a 62 anni avendo versato contributi per almeno 38 anni. E sottolinea che la nuova normativa si muove controcorrente rispetto alle tendenze precedenti: nel periodo tra il 2019 e il 2036, calcola la Ragioneria, la spesa pensionistica comporterà “ulteriori maggiori oneri pari in media a 0,2 punti di pil l'anno”. Lo scostamento più ampio della maggiorazione di spesa rispetto al pil si avrà nel biennio 2020-2021 (più 0,5 per cento). Un effetto che si neutralizzerà, stima l'ufficio che fa capo al ministero dell'Economia, solo dopo il 2037. In termini assoluti, quindi, nel 2022 la quota destinata dallo stato a far fronte alle spese di chi nel frattempo sarà andato in pensione raggiungerà il picco del 15,9 per cento del pil. Una cifra monstre di cui si dovrà far carico una generazione che spera, quantomeno, di non doverlo più fare part-time.