Hong Kong Vs. Londra
L’Opa ostile sulla Borsa inglese e le ragioni per usare il “golden power” a Piazza Affari. Parlano gli esperti
Milano. I giornali inglesi dicono che l’offerta di Hong Kong per il London Stock Exchange è destinata a essere rigettata in nome della tutela di un sistema “cruciale” per il funzionamento del mercato finanziario nel Regno Unito: le dichiarazioni del portavoce del ministero del Tesoro, secondo cui “il governo e i regolatori guarderanno attentamente i dettagli della proposta” sono state interpretate come una sorta di veto istituzionale all’operazione su cui Lse dovrà pronunciarsi entro i primi di novembre. Questa presa di posizione dovrebbe smussare le preoccupazioni per le sorti di Borsa Italiana, che dal 2007 fa parte del grande gruppo finanziario gestito dall’ex banchiere di Goldman Sachs, David Schwimmer. In realtà, proprio le perplessità espresse dalle istituzioni inglesi nei confronti della proposta asiatica sembrano dare ragione a chi ritiene che il governo italiano debba intervenire a tutela dell’interesse nazionale, ammesso che questo possa essere leso dal cambio di proprietà di una società privata. Ma in che modo? Palazzo Chigi e Consob starebbero valutando se esistono i presupposti per esercitare il cosiddetto “golden power”, la legge in base alla quale il governo può avere la facoltà di intervenire nella vita di aziende private quando c’entrano questioni di rilevanza strategica nazionale. E questo in considerazione del ruolo strategico rivestito da Mts (Market treasury security), la piattaforma gestita da Borsa italiana attraverso cui passa tutta l’operatività sui Btp e le informazioni riservate sulle maggiori società del paese.
Il Foglio ha interpellato due avvocati esperti della materia. Secondo Massimo Merola, partner dello studio legale Bonelli Erede, “benché la legge 172/2017 abbia esteso l’ambito di esercizio della golden power alle infrastrutture finanziarie nei settori ad alta intensità tecnologica, ai fini della verifica della sussistenza di un pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico, non risulta sia stato ancora adottato il regolamento per l’individuazione di tali settori. Astrattamente – aggiunge – in mancanza di riferimenti normativi, non è escluso che tra i settori ad alta intensità tecnologica venga fatta rientrare anche la gestione della piattaforma Mts. Né può escludersi quindi che, se soddisfatti gli ordinari requisiti per l’applicazione della normativa, i poteri speciali possano essere esercitati”.
Dunque, i presupposti, anche se in linea teorica, per l’esercizio dell’opzione da parte del governo italiano ci sarebbero. E su questo concorda anche Benedetto Lonato, partner dello studio Lca, secondo il quale la “strategicità” non riguarderebbe solo la piattaforma Mts ma l’intera infrastruttura di Borsa italiana. “Mi pare che i primi a sollevare dei dubbi siano proprio gli inglesi, del resto se si andasse verso un’Opa ostile della Borsa di Hong Kong nei confronti di quella di Londra, ci sarebbero i requisiti oggettivi per esercitare la golden power da parte dei paesi coinvolti. Quello su cui francamente nutro dei dubbi è se un cambio di proprietà da un azionariato in cui è presente, per esempio, un soggetto extra europeo come il fondo del Qatar, alla società che gestisce la Borsa di Hong Kong, possa essere considerato un rischio nazionale”.
Il sistema Mts è stato concepito alla fine degli anni Ottanta, grazie a un’iniziativa congiunta di Banca d’Italia e ministero del Tesoro, quando alla guida c’erano rispettivamente Carlo Azeglio Ciampi e Giuliano Amato. Era la fase storica in cui il debito pubblico tricolore cominciava a crescere e per assicurarne una corretta gestione fu istituito un mercato su circuito informatico in modo da rendere trasparenti i prezzi. Ebbene, questo apparato di tecno-finanza è diventato nel tempo un modello di riferimento in Europa, anche se i denigratori euroscettici sono arrivati a definirlo la “fabbrica dello spread” per motivi ideologici. E’ la piattaforma su cui vengono scambiati i titoli del debito pubblico denominati in euro di una dozzina di paesi – compresa l’Italia, come si sa uno dei paesi più indebitato al mondo – con una media di scambi giornalieri di 100-130 miliardi di euro. La capacità di questo sistema di rappresentare una cabina di regia del commercio mondiale del debito pubblico è cresciuta al punto da avere indotto Lse a rinunciare alla fusione con Deutsche Börse qualche anno fa, quando per motivi Antitrust evidenziati dall’Unione europea divenne chiaro che per portare a termine l’operazione avrebbe dovuto vendere proprio Mts. Ma la storia delle fusioni transfrontaliere tra mercati finanziari è costellata di accordi falliti e molti di questi sono stati bloccati dalle Autorità di regolamentazione per timore che un’attività nazionale potesse essere rilevata da operatori stranieri o che l’acquisizione avrebbe conferito un potere di monopolio sui prezzi in mercati finanziari cruciali. Andrà così anche questa volta?