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Il cortocircuito sull'ambiente che può mettere nei guai il Mef

Carlo Stagnaro

Il piano del ministro Costa per abbattere i sussidi ambientalmente dannosi si tradurrà in altre tasse. Intervenire

Roma. Tagliare i sussidi ambientalmente dannosi per finanziare il Green New Deal? La proposta – che sia il Pd sia il M5s hanno più volte evocato – sembra pronta a tradursi in realtà. E’ una delle ipotesi su cui starebbero lavorando i tecnici del Ministero dell’Economia in vista della legge di bilancio. Ma c’è chi vorrebbe premere l’acceleratore: una norma simile potrebbe essere contenuta nel Decreto attualmente in gestazione presso il ministero dell’Ambiente. Secondo le prime indiscrezioni, gli entusiasmi di Sergio Costa – il quale sogna un tesoretto da 19 miliardi di euro – non avrebbero contagiato gli uomini di Roberto Gualtieri, che puntano attorno a uno o due miliardi. A prescindere dalla cifra, ci sono almeno tre problemi: uno di efficienza economica; un secondo di agibilità politica; un terzo di realtà contabile.

 

Con l’espressione “sussidi ambientalmente dannosi” si intendono tutti quei vantaggi di natura fiscale che incoraggiano comportamenti nocivi per la qualità dell’ambiente. Rimuovere tali incentivi perversi è banale buonsenso. Tuttavia, prima di sfregarsi le mani occorre capire di cosa stiamo parlando. Il catalogo pubblicato annualmente dal ministero dell’Ambiente (Mattm) adotta una definizione ampia di sussidio, che include anche qualunque forma di sconto fiscale praticato a specifiche categorie o per determinati usi degli input produttivi potenzialmente dannosi per l’ambiente. Come vedremo, la maggior parte delle voci del catalogo (e tutte quelle più rilevanti) ricade in questa categoria: quindi, rimuovere i sussidi ambientalmente dannosi significa aumentare le tasse per qualcuno. In tutto si tratta, appunto, di circa 19 miliardi di euro, a cui se ne aggiungono un’altra dozzina di sussidi considerati potenzialmente positivi per l’ambiente come, per esempio, gli incentivi alle energie rinnovabili. Naturalmente, anche questi potrebbero essere ripensati in modo da massimizzare il beneficio ambientale o minimizzare il costo per i cittadini.

  


Secondo le prime indiscrezioni, gli entusiasmi di Sergio Costa non avrebbero contagiato gli uomini di Roberto Gualtieri, che puntano attorno a uno o due miliardi. A prescindere dalla cifra, ci sono almeno tre problemi: uno di efficienza economica; un secondo di agibilità politica; un terzo di realtà contabile


 

In punto di efficienza, il livello “ottimale” della tassazione ambientale è quello che “internalizza” i costi esterni: cioè quello in corrispondenza del quale chi inquina paga. Uno studio condotto da Andrea Molocchi per conto dell’Ufficio valutazione impatto del Senato ha trovato che, in media, la tassazione ambientale vigente (che esclude i sussidi ambientalmente dannosi) in Italia è tale da bilanciare eccome le esternalità prodotte. Tuttavia, non è distribuita in modo equo: le famiglie pagano più di quanto inquinino, mentre l’industria e soprattutto l’agricoltura godono di un trattamento preferenziale. Infatti, per ogni euro di danno ambientale generato, le famiglie versano all’erario 1,70 euro, l’industria 0,73 e l’agricoltura 0,07 (non è un refuso). La prima conclusione è dunque che qualunque intervento sui sussidi ambientalmente dannosi non dovrebbe essere finalizzato a generare gettito addizionale (e dunque a finanziare spesa): dovrebbe passare attraverso una redistribuzione interna tra categorie di contribuenti, con gli agricoltori nei panni dei grandi sconfitti. Ovviamente, si può ribattere che c’è una logica nell’attuale sistema: il sussidio incrociato tra famiglie e industria, per esempio, risponde all’esigenza di prevenire la delocalizzazione di attività produttive esposte alla concorrenza internazionale. Tale scelta è comprensibile anche da un punto di vista ambientale: se questi insediamenti si spostassero verso nazioni meno attente alla sostenibilità, l’effetto netto sarebbe quello – paradossale – non tanto di trasferire l’inquinamento, ma di incrementarlo (fenomeno noto come “carbon leakage”). Nel caso del clima, il detto “lontano dagli occhi lontano dal cuore” non vale, perché gli effetti del riscaldamento globale riguardano l’intero pianeta. Se le cose stanno così, il lungo viaggio tra i sussidi ambientalmente dannosi finisce prima di cominciare. Non si possono eliminare i sussidi senza aumentare le tasse almeno per qualcuno. E non ha senso aumentare le tasse su tutti visto che non solo ne paghiamo già abbastanza, ma ne paghiamo più degli altri. Secondo i dati dello stesso Mattm, il gettito complessivo delle tasse ambientali in Italia è pari al 3,5 per cento del Pil, contro l’1,86 per cento dei tedeschi e il 2,23 per cento dei francesi e una media europea del 2,44 per cento. 

 

Assumiamo, però, che il governo, in preda a un eccesso di zelo, intenda proseguire. Chi usufruisce degli sconti “ambientalmente dannosi” e come viene determinata la loro entità? Le principali voci sono gli sconti sul gasolio per l’autotrasporto (1,2 miliardi) e i consumi agricoli (0,8 miliardi), il differente trattamento fiscale tra benzina e gasolio (4,9 miliardi), la detassazione delle auto aziendali (1,2 miliardi), l’esenzione dall’accisa per il jet fuel (1,6 miliardi, legati in parte ad accordi internazionali) e l’aliquota Iva agevolata sui consumi energetici di famiglie (1,6 miliardi) e imprese (1,4 miliardi). Queste voci da sole rappresentano oltre il 60 per cento di tutti i sussidi. La stima sulla loro capienza non corrisponde a una previsione di gettito nel caso in cui essi fossero rimossi. Infatti, se per esempio fossero eliminati gli sconti sul gasolio per l’autotrasporto e gli agricoltori, nel breve termine le imprese pagherebbero un po’ di tasse in più, ma nel medio termine alcune fallirebbero e altri sostituirebbero i mezzi più obsoleti con altri più moderni ed efficienti, con beneficio per l’ambiente ma poca soddisfazione per l’erario. Vedremo più avanti che questo è un aspetto cruciale per il disegno della riforma.

 

Che senso avrebbe incentivare l’acquisto di auto elettriche o di pompe di calore per poi inasprire il prelievo tributario con la destra?

Eliminare tutti questi sconti, sic et simpliciter, è politicamente quasi impossibile. Alzi la mano chi conosce un politico disposto ad aumentare l’accisa sul gasolio dagli attuali 617,40 euro a 728,40 per mille litri, parificandola a quella per la benzina con un incremento overnight del 18 per cento. Oltre tutto, con effetti dubbi sull’ambiente: non ditelo a Greta, ma la prevedibile sostituzione di veicoli a gasolio con altri a benzina avrebbe la conseguenza di ridurre le emissioni di polveri sottili e altri inquinanti locali, al prezzo di aumentare quelle di CO2. Solo una piccola quota del turnover potrebbe essere soddisfatto da auto alimentate da carburanti eco-compatibili, che spesso faticano a imporsi sul mercato pur avendo tassi di crescita importanti. Analogamente, cancellare il regime Iva agevolato per l’energia elettrica sarebbe due volte assurdo: da un lato perché l’energia elettrica è protagonista di un intenso processo di decarbonizzazione; dall’altro perché sia a livello nazionale sia europeo è in atto un colossale sforzo di elettrificazione dei consumi. Che senso avrebbe incentivare l’acquisto di auto elettriche o di pompe di calore con la mano sinistra, per poi inasprire il prelievo tributario con la destra?

 

Se si scomputano dal conteggio queste voci, il tesoretto di 19 miliardi si restringe. Non che non vi siano altri capitoli di spesa o agevolazioni che non possano entrare nel mirino di una razionalizzazione in ottica ambientale della fiscalità. Solo che, adottando una prospettiva più realistica, il cerchio si restringe di quasi un ordine di grandezza. Anche qui, però, occorre prendere atto della complessità della situazione, e di conseguenza elaborare soluzioni articolate. Prendiamo il caso del gasolio per agricoltori e autotrasportatori. Gli sconti esistenti servono a tutelare la competitività delle imprese nazionali, le quali spesso riescono a stare sul mercato pur avendo dimensioni molto piccole e mezzi antiquati e inefficienti. Se le agevolazioni esistenti sparissero, queste imprese si troverebbero coi conti in rosso e molte dovrebbero portare i libri in tribunale, lasciando quote di mercato ai concorrenti esteri. Questa prospettiva le spingerebbe a fare le barricate contro ogni riforma: è per questo che nel passato i tentativi di ripensare le agevolazioni hanno prodotto blocchi stradali, rivolte e infine poco onorevoli marce indietro.

 

A parole, l’obiettivo è la riduzione dell’inquinamento. In concreto, non si cercano meno emissioni, ma più tasse per alimentare più spesa

Una possibile via d’uscita esiste, ma è incompatibile coi desiderata del governo. Un’indagine svolta dall’Ufficio studi di Confcommercio ha mostrato che lo squilibrio tra le esternalità generate e il costo sostenuto (al lordo dei rimborsi) dal settore dell’autotrasporto dipende dalle motorizzazioni utilizzate: un autocarro euro6 paga in media oltre 7 mila euro di tasse in più all’anno rispetto ai costi ambientali che produce, mentre uno euro0 paga un extracosto pari a “solo” 1.600 euro. Entrambi sono tassati più di quanto dovrebbero, ma è evidente che la sostituzione di veicoli più vecchi con altri più nuovi avrebbe un beneficio enorme e quantificabile per l’ambiente. Inoltre, un mezzo più recente consuma meno carburante a parità di chilometraggio: anche a fronte di un aumento della tassazione unitaria, la spesa per il gasolio potrebbe essere inferiore (e con essa il gettito fiscale). Salvare capra e cavoli richiede quindi un approccio di questo tipo: per un verso stabilire ex ante un sentiero di riduzione degli sconti, per l’altro riconoscere agli autotrasportatori un sostegno per aiutarli a sostenere le spese per cambiare il loro parco veicoli. Solo consentendo alle imprese di pianificare i loro investimenti, è possibile concludere un patto finalizzato a eliminare (o almeno ridurre) le distorsioni fiscali.

 

Se ben concepita, una politica di questo senso avrebbe tutti i crismi della razionalità: in una prospettiva ambientale, consentirebbe di ridurre le emissioni di inquinanti legate al trasporto; sotto il profilo della demografia d’impresa, farebbe piazza pulita di un vincolo implicito alla crescita dimensionale delle aziende; in punto di efficienza del sistema economico, favorirebbe una allocazione più produttiva delle risorse e allineerebbe i costi privati a quelli sociali. Tuttavia, l’effetto sul bilancio pubblico sarebbe virtualmente nullo. Infatti, in questo come in altri casi, l’incremento della tassazione (e dunque dei prezzi) si tradurrebbe perlopiù in una contrazione dei consumi, cioè del gettito. La quantificazione del valore dei sussidi ambientalmente dannosi è statisticamente corretta, ma contabilmente falsa: le previsioni di gettito sono campate per aria perché si limitano a calcolare quale sarebbe il maggior afflusso nelle casse dello Stato, a parità di consumi, in presenza di tributi più alti. I sussidi ambientalmente dannosi sono una distorsione nel funzionamento dell’economia, non una grandezza contabile. Inoltre, hanno una storia e, in alcuni casi, delle motivazioni che non possono essere ignorate.

 

Purtroppo, questo è uno degli aspetti dove la retorica giallorossa rischia di entrare in conflitto con le reali intenzioni delle forze che sostengono il governo. A parole, l’obiettivo è ambientale, cioè la riduzione dell’inquinamento. In concreto, invece, non si cercano meno emissioni, ma più tasse per alimentare più spesa. Il paradosso è che la tassazione ambientale, se ben disegnata, non ha come effetto quello di massimizzare il gettito, ma quello di far restringere la base imponibile. Insomma, meglio funziona, meno gettito estrae. Pertanto non può essere invocata per alimentare capitoli di spesa che si proiettano avanti nel tempo. La razionalizzazione delle spese fiscali può offrire un importante contributo al miglioramento dell’ambiente economico italiano. L’approssimazione con cui il tema è stato finora affrontato non induce all’ottimismo: si ha la sensazione di un tentativo disordinato di “fare qualcosa di verde”, senza alcun riguardo per gli effetti macroeconomici e distributivi. Sull’uscio del Ministero dell’Economia farebbero bene a scolpire l’ammonimento di Maffeo Pantaleoni: “Qualunque imbecille può inventare e imporre tasse. L'abilità consiste nel ridurre le spese, dando nondimeno servizi efficienti, corrispondenti all'importo delle tasse”.

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