“Ambientalista sarà suo nipote”. Ragioni per maneggiare con cura il consenso del popolo di Greta
Cambiare politica energetica ha un costo, ci spiega Massimo Nicolazzi. "L'importante è che non lo paghino le fasce più deboli"
Milano. “La rivoluzione energetica, o è socialista o non è”. La tocca piano, Massimo Nicolazzi, manager di altissimo livello di Eni, Lukoil, Centrex e di altri, mentre chiacchiera con noi di energia, decrescita, politica e, tanto che ci siamo, anche del suo libro “Elogio del Petrolio” nel quale si parla, con lucidità, parecchia ironia e nessun tabù, di come l’energia serva all’uomo e di come l’uomo, per salvarsi le penne da qui al prossimo futuro, debba imparare a gestirla, per smetterla di essere agito. Nella prima metà del volume Nicolazzi fa quello che di rado, di questi tempi, qualcuno osa fare: loda la materia prima più bistrattata di sempre, il petrolio.
All’olio nero, Nicolazzi offre un sincero ringraziamento, ché sì inquina, puzza e sporca, ma ha consentito a tutti noi di realizzare un progresso che niente prima mai: il legno e il carbone hanno fatto quel che hanno potuto come hanno potuto e li ringraziamo, visto che ci hanno portato dalle caverne alle ferrovie, ma da un certo punto in poi ci ha dovuto pensare il petrolio. E lì, allora, si è visto il miracolo vero e il futuro si è fatto presente. Certo il costo in termini di sostenibilità è alto. Non serve Greta Thunberg a ricordarcelo. Da qui a breve le cose, piaccia o no, dovranno cambiare. Non solo perché il petrolio inquina, puzza ed è orrendamente poco chic. Non tanto perché – cosa che Nicolazzi mette seriamente in discussione – sia una risorsa finita che va, dicono, a esaurirsi. Ma perché ce ne sono le tecnologie e le possibilità. Basta farlo. E qui cominciano i guai veri. “Se alzi le imposte sulla benzina, ti scoppiano in mano i gilet gialli” cita facile Nicolazzi. E dunque nessuno oggi, in Italia (transeat) e soprattutto altrove, sembra avere l’intenzione politica di salutare il petrolio, nessuno ha ancora trovato la chiave per tenere insieme consenso elettorale e politica ambientale. “La politica ambientalista, per essere efficace e quindi tale, deve in primo luogo essere completa: non può avere la tutela dell’esistente come unico faro, ma deve occuparsi di crescita, sviluppo, ambiente e soprattutto coesione sociale. Se si vuole (e credo si debba) cambiare politica energetica, occorre tenere conto del fatto che questo cambio ha un costo. E lo scopo del gioco è evitare che questo costo lo paghino le fasce più deboli. In caso contrario il costo in termini sociali sarà altissimo. E lo stesso vale per quello politico ed elettorale. A oggi nessun politico è riuscito a coagulare consenso attorno ai temi dell’ambiente”.
Non ci sono riusciti i partiti verdi, quelli progressisti, quelli conservatori figuriamoci quelli sovranisti e populisti (che anzi, in Francia e, per scimmiottamento, anche in Italia hanno sposato con entusiasmo la lotta per il diritto alla benzina dei gilet gialli, visti come i poveri delle periferie contrapposti ai fighetti parigini che la fanno facile, loro che vivono in città). Eppure è dalle scelte di governo che bisogna passare, per forza, per andare da qualche parte. “Senza intervento pubblico, che sia per via di sussidio, o divieto, o tassazione del fossile, con le fonti rinnovabili non saremmo nemmeno partiti. E, lo stesso, se vogliamo andare avanti. La rinnovabile, se la si sceglie, è come un figlio. Il reddito, se mai ne produce, è differito rispetto all’investimento. E se vuoi anticiparlo, o evitare che in attesa di dare frutti combini disastri, devi sostituire al mercato la regolazione. Un modo possibile, che già abbiamo incontrato e torneremo a incontrare, è la tassazione. Si tassa il “nemico fossile” per rendere più attraente la rinnovabile. Può funzionare certo, ma ci sono dei limiti: il primo è che se tassi troppo e troppo in fretta, il risultato netto di breve periodo è che aumentano troppo e velocemente i prezzi dell’energia e invece della transizione rischi la recessione. Con tutto quel che ne può derivare dal punto di vista sociale. Il secondo è che viviamo in un mondo industriale e se solo un paese si mette in testa la decarbonizzazione rischia di pagare un conto altissimo in termini di produzione e concorrenza”. C’è di peggio: “Se si sceglie la via più facile e immediata, ossia quella semplicemente di tassare le fonti fossili, occorre mitigare l’impatto di una scelta così radicale sulle fasce più deboli. La tassazione del petrolio può trovare consenso (e dunque essere fattibile da un governo che non ambisca a suicidarsi) solo se agevola l’accesso all’energia delle fasce più deboli anziché renderlo più costoso. Il consenso lo si conquista con pratiche di trasparenza e di equità. E queste devono andare insieme, non in alternativa, a quelle ambientali. No transition without taxation, direbbero gli inglesi, sostenendo che non si possa fare nessun grande passo avanti senza lo zampino di stati e governi. Ma, aggiungiamo, anche no taxation without redistribution, perché altrimenti il prezzo da pagare sarebbe così alto da rendere la strada impercorribile”.
E dunque dove si va? “Per quel che riguarda me – conclude – ho più di 60 anni, ho vissuto in una condizione di relativo privilegio e penso che morirò con un clima temperato. Diverse saranno le cose per i miei figli e i miei nipoti. Per loro serviranno politiche che sappiano guardare al lungo e termine. E purtroppo, oggi, difficilmente un capo di partito ha tempo da perdere a preoccuparsi dei nipoti dei suoi elettori di oggi”.