Il nesso tra difesa del capitalismo e difesa della democrazia liberale, spiegato a Calenda
L'economia di mercato ha bisogno di rivedere le regole e l’orizzonte del sistema economico. A cominciare dal profitto d’impresa, che non è la misura di tutto, ma va accoppiato a quello sociale
Carlo Calenda è così simpatico e gentile, lui e la sua affollata gens, che bisogna prenderlo in parola, fornirgli un anticipo di simpatia anche quando sembra stravagante o bizzarro. Ora dice davanti a D’Alema, Bianca Berlinguer e Polito, non proprio tra i più scalmanati fautori del Jobs Act, che il lavoro si difende puntualmente, posto per posto, con i megafoni e le manifestazioni sindacali e i negoziati duri; altro che il liberalismo ideologico di Alesina e Giavazzi, economisti convinti della distinzione tra lavoro, da difendere creandolo in condizioni di flessibilità e mobilità, e posti improduttivi, da mollare con le dovute protezioni sociali alla legge del mercato. Siccome è persona leale, e prima dei recenti approdi ha collaborato con Montezemolo, con Monti e con il riformismo renziano, qualificandosi come un protagonista non solo televisivo della battaglia liberale contro il semplicismo assistenzialista e populista, Calenda si attribuisce personalmente trent’anni di adesione, che rinnega, a questa “scemenza”. A me sembra ragionevole che nel capitalismo moderno si agisca per favorire gli investimenti, la produttività, la competizione di mercato, e dunque l’innovazione tecnica e modi dinamici di dislocare, riqualificare e adattare il lavoro umano, mentre mi sembra irragionevole intestardirsi a produrre merci che non vendono o che possono essere prodotte in condizioni più produttive e competitive altrove o altrimenti. Naturalmente nessuno deve essere liquidato come numero obsoleto e una rete di assistenza e di welfare deve coprire il bisogno di protezione di chi lavora, magari nella forma del welfare to work, come si dice, cioè non una garanzia incondizionata e a vita ma un viatico praticabile e concreto di reinserimento nel mercato, fino al godimento della pensione. Ma sono tutte cose opinabili, e d’altra parte l’economista perfetto è il più raro degli uccelli, come diceva Keynes.
Mi interessa di più la parte politica. Dopo la crisi del 2008 è partito un assalto generale a un sistema capitalistico produttore di sviluppo, sì, ma anche di diseguaglianze (le due cose hanno una loro intima connessione); a un sistema che riduce la povertà, sì, ma ridimensiona le speranze di mobilità e crescita in una parte considerevole del ceto medio, specie in occidente (anche qui: connessione). Il fulcro di questo attacco è politico, perché nessuno vuole tornare al liberalismo ideologico del laissez-faire e nessuno crede che l’interventismo macroeconomico possa annullare la funzione autonoma dei mercati. In molti piuttosto si affannano a dare per spacciato il nesso tra capitalismo e democrazia liberale. Per difendere quest’ultima bisogna rivedere le regole e l’orizzonte del sistema economico che l’ha in vario modo strutturata. Partendo dal fatto che il profitto d’impresa, quello dei suoi azionisti (shareholders), non è la misura di tutto, ma va accoppiato al profitto sociale, quello degli stakeholders. Chi dice popolo, chi dice riflesso dell’economia sull’ambiente, chi dice fornitori, chi dice consumatori, chi pubblico servizio: ci sono mille modi diversi per qualificare socialmente un nuovo soggetto dello sviluppo che non è il mero profitto creato per conto del padrone della ditta. Tecnologie e intelligenza artificiale complicano il quadro di un nuovo mondo che si vorrebbe in parte almeno postcapitalistico.
Una letterina all’Economist, che da buon foglio liberal è all’avanguardia del dibattito in merito, mi ha fatto riflettere. Se la misura è il profitto d’impresa, scriveva il lettore, lo spazio di libertà e autonomia del potere pubblico interventista, a correzione, è preservato. A ciascuno il suo. Viceversa: se il ciclo della creazione di valore assume compiti sociali estesi, estranei alla logica di mercato e di profitto, lo stato si indebolisce e il rischio è che venga eterodiretto da un’impresa onnipotente. Il capitalismo riformato da cui è espunta la centralità del profitto d’impresa diventa paradossalmente un sistema in cui l’impresa assume compiti di direzione generale egemonici. Forse questa obiezione democratico-liberale vale anche indirettamente per la nuova convinzione di Calenda, vecchia solfa assistenzialista e statalista, che l’impresa deve salvare i posti di lavoro improduttivi anche se distruggono valore per i suoi azionisti, perché il suo scopo sociale è più forte del suo statuto di azienda capitalistica. Chissà.