Il nesso tra difesa del capitalismo e difesa della democrazia liberale, spiegato a Calenda

Giuliano Ferrara

L'economia di mercato ha bisogno di rivedere le regole e l’orizzonte del sistema economico. A cominciare dal profitto d’impresa, che non è la misura di tutto, ma va accoppiato a quello sociale

Carlo Calenda è così simpatico e gentile, lui e la sua affollata gens, che bisogna prenderlo in parola, fornirgli un anticipo di simpatia anche quando sembra stravagante o bizzarro. Ora dice davanti a D’Alema, Bianca Berlinguer e Polito, non proprio tra i più scalmanati fautori del Jobs Act, che il lavoro si difende puntualmente, posto per posto, con i megafoni e le manifestazioni sindacali e i negoziati duri; altro che il liberalismo ideologico di Alesina e Giavazzi, economisti convinti della distinzione tra lavoro, da difendere creandolo in condizioni di flessibilità e mobilità, e posti improduttivi, da mollare con le dovute protezioni sociali alla legge del mercato. Siccome è persona leale, e prima dei recenti approdi ha collaborato con Montezemolo, con Monti e con il riformismo renziano, qualificandosi come un protagonista non solo televisivo della battaglia liberale contro il semplicismo assistenzialista e populista, Calenda si attribuisce personalmente trent’anni di adesione, che rinnega, a questa “scemenza”. A me sembra ragionevole che nel capitalismo moderno si agisca per favorire gli investimenti, la produttività, la competizione di mercato, e dunque l’innovazione tecnica e modi dinamici di dislocare, riqualificare e adattare il lavoro umano, mentre mi sembra irragionevole intestardirsi a produrre merci che non vendono o che possono essere prodotte in condizioni più produttive e competitive altrove o altrimenti. Naturalmente nessuno deve essere liquidato come numero obsoleto e una rete di assistenza e di welfare deve coprire il bisogno di protezione di chi lavora, magari nella forma del welfare to work, come si dice, cioè non una garanzia incondizionata e a vita ma un viatico praticabile e concreto di reinserimento nel mercato, fino al godimento della pensione. Ma sono tutte cose opinabili, e d’altra parte l’economista perfetto è il più raro degli uccelli, come diceva Keynes. 

 

  

Mi interessa di più la parte politica. Dopo la crisi del 2008 è partito un assalto generale a un sistema capitalistico produttore di sviluppo, sì, ma anche di diseguaglianze (le due cose hanno una loro intima connessione); a un sistema che riduce la povertà, sì, ma ridimensiona le speranze di mobilità e crescita in una parte considerevole del ceto medio, specie in occidente (anche qui: connessione). Il fulcro di questo attacco è politico, perché nessuno vuole tornare al liberalismo ideologico del laissez-faire e nessuno crede che l’interventismo macroeconomico possa annullare la funzione autonoma dei mercati. In molti piuttosto si affannano a dare per spacciato il nesso tra capitalismo e democrazia liberale. Per difendere quest’ultima bisogna rivedere le regole e l’orizzonte del sistema economico che l’ha in vario modo strutturata. Partendo dal fatto che il profitto d’impresa, quello dei suoi azionisti (shareholders), non è la misura di tutto, ma va accoppiato al profitto sociale, quello degli stakeholders. Chi dice popolo, chi dice riflesso dell’economia sull’ambiente, chi dice fornitori, chi dice consumatori, chi pubblico servizio: ci sono mille modi diversi per qualificare socialmente un nuovo soggetto dello sviluppo che non è il mero profitto creato per conto del padrone della ditta. Tecnologie e intelligenza artificiale complicano il quadro di un nuovo mondo che si vorrebbe in parte almeno postcapitalistico. 

 

 

Una letterina all’Economist, che da buon foglio liberal è all’avanguardia del dibattito in merito, mi ha fatto riflettere. Se la misura è il profitto d’impresa, scriveva il lettore, lo spazio di libertà e autonomia del potere pubblico interventista, a correzione, è preservato. A ciascuno il suo. Viceversa: se il ciclo della creazione di valore assume compiti sociali estesi, estranei alla logica di mercato e di profitto, lo stato si indebolisce e il rischio è che venga eterodiretto da un’impresa onnipotente. Il capitalismo riformato da cui è espunta la centralità del profitto d’impresa diventa paradossalmente un sistema in cui l’impresa assume compiti di direzione generale egemonici. Forse questa obiezione democratico-liberale vale anche indirettamente per la nuova convinzione di Calenda, vecchia solfa assistenzialista e statalista, che l’impresa deve salvare i posti di lavoro improduttivi anche se distruggono valore per i suoi azionisti, perché il suo scopo sociale è più forte del suo statuto di azienda capitalistica. Chissà.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.