Cosa c'entra Assange con l'uscita dall'Opec dell'Ecuador di Moreno
Il governo non accetta l’idea di doversi attenere alle quote dell’Organizzazione in un momento in cui, per via degli attentati agli impianti sauditi, la produzione mondiale è al minimo da 16 anni. Il conflitto tra il presidente e il suo predecessore Correa
Roma. Cosa c’entra la decisione del governo dell’Ecuador di consegnare Julian Assange alle autorità britanniche con quella dello stesso governo di uscire dall’Opec? In teoria, nulla. In pratica, moltissimo. “Il ministero dell’Energia e delle Risorse Non Rinnovabili informa che il governo ecuadoriano ha deciso di cessare di appartenere all’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (Opec) dallo 01 di gennaio del 2020”, è il tono di un comunicato ufficiale che ricorda peraltro come dopo essere entrato nell’organizzazione nel 1973 il paese ne era già uscito nel 1992, per tornarvi solo nel 2007. Lo stesso comunicato promette pure che “l’Ecuador manterrà i vincoli costituiti con i paesi parte dell’Opec”, cui augura successo “nella continuazione del lavoro che è andata realizzando dall’anno 1960”. Ma “la decisione è dovuta agli affari e sfide interni che deve affrontare il paese, in relazione alla sostenibilità fiscale”. Una misura “che si allinea con il piano del governo nazionale di riduzione della spesa pubblica e creazione di nuove entrate”.
In sostanza il governo di Lenín Moreno non accetta l’idea di doversi attenere alle quote dell’Opec proprio in un momento in cui per via degli attentati houthi agli impianti sauditi la produzione mondiale è al minimo da 16 anni. Oltretutto, mentre anche un altro grande produttore come il Venezuela è a livelli di export minimi per la combinazione di cattiva gestione e sanzioni. Ma la decisione viene assieme a un pacchetto di importanti riforme economiche appunto volte a ridurre deficit fiscale e debito internazionale. “Le decisioni che ho preso sono decisioni che erano state rinviate per decenni”, ha detto Moreno. “Bisognava correggere gravi errori nell’economia ecuadoriana”.
Questa è una prima frecciata contro il suo predecessore Rafael Correa. Vicepresidente dello stesso Correa tra 2007 e 2013, suo delfino nel 2017, eletto con il suo decisivo appoggio, Moreno poco dopo l’insediamento è però entrato con lui in una collisione sempre più grave. Non solo dunque ha tolto ad Assange l’asilo che Correa gli aveva concesso nell’ambasciata a Londra. Non solo revoca ora quella riadesione all’Opec che Correa aveva deciso. Ma ha anche rotto decisamente con Maduro, con cui Correa continua invece a essere solidale. “E’ una misura che esiste in Venezuela e il Venezuela non è il miglior esempio da seguire”, ha detto nello spiegare quella revoca del sussidio al prezzo di diesel e benzina che costa 1,3 miliardi di dollari all’anno e che è uno dei punti qualificanti del pacchetto. Il vicepresidente Jorge Glas, eletto con lui e invece fedelissimo di Correa, è finito in carcere, per corruzione nell’ambito dello scandalo Odebrecht. E sullo stesso Correa, all’estero, pende una richiesta di estradizione. Per Correa oggi Moreno è un “traditore”. Moreno in tv ha appena ricordato che Correa deve tornare “per rispondere alle accuse contro di lui, da delitti comuni alla corruzione e perfino al sequestro di persona”. Riferimento al tentativo di rapimento di un oppositore rifugiato in Colombia.
L’Ecuador da membro dell’Opec aveva dovuto ridurre la produzione a 524mila barili al giorno: 16mila in meno di quanto non sia considerato il suo optimum. Già nel 2017 aveva sfondato la sua quota per trovare le risorse necessarie a affrontare una grave crisi economica. Il volume è comunque troppo piccolo per influenzare i prezzi mondiali, quindi l’Ecuador ha tutto l’interesse ad avvantaggiarsi della politica Opec senza dovervisi attenere a sua volta. Nel 2018 gli Stati Uniti, tornati in testa alla produzione mondiale grazie al fracking, hanno prodotto 15,3 milioni di barili al giorno, contro 12,2 dell’Arabia Saudita e 11,4 della Russia. Ma dopo gli attacchi houthi la produzione saudita è crollata a 8,36. Il Venezuela sta a 650.000, e l’Iran a 4,7 milioni.