Netflix dà una lezione ai governi per una web tax non punitiva
Tassare i profitti digitali dove sono prodotti
Roma. L’annuncio di Reed Hastings, ceo di Netflix, che l’azienda aprirà uffici e inizierà a pagare le tasse in Italia in base al fatturato nel nostro paese, può rappresentare la svolta nella guerra fiscale tra i cosiddetti colossi del web ed i maggiori paesi europei. Tra le principali “WebSoft” (Software & Web Companies) Netflix si piazza al 15esimo posto come fatturato globale, l’equivalente di oltre 50 miliardi di euro, in una classifica aperta dai 150 miliardi di Amazon, seguita da Alphabet (Google) e Microsoft. Ma la graduatoria è stata terremotata dall’irruzione di Disney, che dopo l’acquisizione di Fox si espanderà nello streaming, dove finora Netflix l’ha fatta da padrone: Disney, quotata a Wall Street, capitalizza 240 miliardi di dollari, il doppio rispetto ai 116 di Netflix sul Nasdaq. Ed è una conglomerata tradizionale, con studi, oltre 200 mila, immobili e negozi.
Netflix, che secondo molti analisti ha la necessità cambiare strategia per reggere la concorrenza – oltre a Disney, stanno per scendere in campo Apple, At&t, Nbc, Warner, oltre alle già presenti Amazon e Hbo – in Italia dove a due milioni di abbonati ha stretto un’alleanza con Mediaset per la produzione di film e serie tv e con Sky per la commercializzazione della sua piattaforma su un canale dedicato. Hastings ha spiegato che per ora non c’è l’intenzione di aprire studi di produzione italiani, dunque le tasse verranno presumibilmente pagate sugli abbonamenti; e sempre presumibilmente lo schema sarà simile a quello di Fiat Chrysler Automobiles. Fca paga nei singoli paesi le tasse sui veicoli fatturati mentre i profitti della holding vengono tassati a Londra dove ha il domicilio fiscale, e l’azienda è di diritto olandese quanto alla governance favorevole ai soci di maggioranza.
Fare pagare le tasse ai colossi del web è diventata, specie in Europa, una sorta di priorità anche in chiave anti globalista, e spesso viene presentata dai governi come la soluzione per ridurre le imposte alle imprese “normali” e alle famiglie. Ieri il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha ripetuto che la web tax sarà applicata a partire dal 2020. In realtà uno studio di Mediobanca di fine 2017 dimostra che l’elusione fiscale delle WebSoft (con l’aggiunta di Apple, che non è tecnicamente una internet company) è sì elevata, ma non molto più rispetto ad altri settori. In cinque anni è risultata di 69 miliardi di euro, grazie a quasi due terzi degli utili lordi tassati in paesi con pressione fiscale inferiore a quelli nei quali i gruppi hanno sede. Ma l’aliquota fiscale media si è attestata al 20,3 per cento rispetto al 20,4 di altri settori americani dell’industria tradizionale, non molto distante da quella delle conglomerate cinesi (23,1) ed europee (24,6). La sede fiscale in paesi extra Usa, dove il tax rate è al 35 per cento, offre vantaggi misurabili. Non così nell’Unione europea non c’è un regime fiscale unico e molti vanno a domiciliarsi in Irlanda, Regno Unito, Lussemburgo e Olanda. Dal che si ricava che sono i paesi Ue che si fanno concorrenza, e non solo per il web. Quando nel 2016 la Ue ha comminato ad Apple 13 miliardi di multa per elusione fiscale, imponendo all’Irlanda di recuperarli, il governo di Dublino è stato il primo a opporsi portando la questione alla corte europea di giustizia.
Così come Dublino assieme a Danimarca e Svezia ha fatto saltare quest’anno un compromesso promosso da Germania e Francia per una tassa unica europea del 3 per cento su attività fatturabili tracciabili, attraverso gli indirizzi Ip, come la pubblicità digitale, le vendite online attraverso il marketplace (piattaforme sulle quali operano aziende terze) e la vendita dei dati generati dalle attività degli utenti. Neppure l’ipotesi al ribasso di tassare solo la pubblicità digitale è passata. Dunque Francia, Italia, Spagna e Regno Unito hanno annunciato che si muoveranno su base nazionale, posizione condivisa fuori dalla Ue anche dall’Australia, mentre gli Usa minacciano ritorsioni per attività fiscale discriminatoria verso aziende americane. Netflix pare volersi muovere su questa linea. Ha firmato nel 2018 un accordo con la Spagna per la creazione di un polo produttivo a Madrid che, oltre a realizzare serie tv e film in lingua e con staff spagnoli, impiega già 13 mila dipendenti tra attori e tecnici. Risultati visibili di questa svolta sono serie di successo a partire da “Casa di carta”, e più recentemente “Criminal”, offerta sulla piattaforma in versione inglese, tedesca, spagnola e francese. Soluzioni che non soddisfano i crociati anti web, ma come è noto il bene è nemico del meglio.